È noto che Giovanni Paolo II durante le sue vacanze estive a Castel Gandolfo amava organizzare incontri di studio e di dialogo con studiosi di diverse discipline. Durante uno di questi meeting, con un gruppo di scienziati polacchi, ci fu una conferenza sulla cosmologia seguita da una discussione: il fatto singolare è che il relatore sopra l’abito sacerdotale indossava una t-shirt con un’immagine scientifica, il diagramma HR (Hertzsprung-Russell) per la classificazione delle stelle. Il Papa non si limitò a ridere e a parlarne con il protagonista durante la successiva cena, ma dimostrò di aver colto la provocazione, ritornando più volte, nei successivi discorsi agli scienziati, sui punti sottolineati dal sacerdote-cosmologo.
Col racconto di questo simpatico episodio inizia il libro-intervista a Michael Heller, polacco, membro della Pontificia Accademia delle Scienze e vincitore del Premio Templeton nel 2008: nel libro “La scienza e Dio” (La Scuola) Heller, rispondendo alle penetranti e documentate domande del giornalista Giulio Brotti, passa in rassegna i principali temi che ruotano attorno al dibattito su scienza e fede, operando delle sintesi efficaci e aprendo interessanti prospettive su un filo conduttore sintonizzato sullo stesso motivo che l’aveva spinto a presentarsi in quella foggia davanti al Papa.
È l’idea di una profonda unità di posizione e di approccio personale, che va ben al di là di tanti tentativi di accordo forzato o di apparente dialogo tra scienziati e teologi: «Desideravo approfittare dell’occasione per comunicare al papa un messaggio: e cioè, che vi è una grave separazione tra l’ambito delle istituzioni ecclesiali e quello della ricerca scientifica. Perciò indossai quella maglietta con il diagramma HR, sopra il mio abito sacerdotale. Volevo segnalare che vi è di fatto una spaccatura, non nella mia personalità individuale, ma nelle pratiche che conduco, come sacerdote cattolico e come scienziato: quando insegno in un seminario, o in un istituto cattolico, vengo identificato nel primo modo, e quando conduco una ricerca scientifica, insieme ad altri colleghi, nel secondo. Tra questi ambiti, non sembrano darsi punti di contatto».
Heller invece si dichiara “felice” di essere scampato a questa “schizofrenia” e lo sviluppo del dialogo con Brotti non fa che testimoniare in positivo tale scampato pericolo. E lo può fare anche perché l’intervistato mette in pratica quello che lui stesso auspica come condizione perché il dialogo sia fecondo e lontano da tentazioni concordiste: cioè che tra i dialoganti ci sia una sufficiente preparazione in entrambi i campi; o meglio, che entrambe le dimensioni, quella scientifica e quella religiosa, siano oggetto di un’esperienza approfondita e personale.
Ciò, prima ancora di essere utile al dialogo, diventa interessante per la persona che lo vive, che può sperimentare il fare scienza «come una forma di partecipazione al mistero della creazione» e può «studiando certe strutture matematiche che intendono rappresentare il mondo fisico – come le formule della teoria della relatività e della meccanica quantistica – … “toccare con mano” la capacità che tali formule hanno di esprimere una razionalità immanente nell’universo».
Questo della razionalità è un punto di forza delle argomentazioni di Heller. La possibilità di studiare e comprendere, poco o tanto, l’universo è frutto dell’incontro di due razionalità: quella dell’uomo e quella della natura. L’ordine razionale presente nel mondo «suscita nello scienziato un sentimento di meraviglia, di partecipazione al mistero»; ma la prolungata interazione con la natura, nel corso dell’evoluzione, «lascia il suo imprinting nelle nostre categorie mentali», abilitandoci a entrare in contatto con le strutture del reale.
È il medesimo gusto della razionalità che porta Heller a privilegiate un pensatore come Leibniz, del quale cita volentieri l’espressione “Quando Dio calcola e mette in atto i suoi pensieri, allora nasce il mondo”; e rilancia il celebre interrogativo: “Perché esiste qualcosa, anziché il nulla?”. Secondo Heller era Leibniz ad avere le carte in regola per diventare un “nuovo Tommaso” ed è all’autore della Teodicea che si dovrebbe guardare anche oggi per un cammino verso l’unità del sapere. Del resto, la sua domanda è una di quelle “strategiche” nel dialogo tra la teologia e le scienze: una domanda che è preferibile lasciare “aperta” con tutta la sua carica di provocazione e drammaticità alla ricerca di una soluzione positiva, piuttosto che rinchiuderla in risposte parziali o riduttive.
Certo, «nella prospettiva cristiana, la risposta è data dalla dottrina della creazione del mondo ad opera di Dio»; ma la profondità di un simile messaggio – che non va confuso con quelli, vagamente manichei dei sostenitori dell’Intelligent Design – è tale da non chiudere la questione: anzi, si può dire che la rende ancor più acuta e stimolante.
Qualche contributo sull’argomento potrà venire dalle ricerche condotte presso il Copernicus Center for Interdisciplinary Studies di Cracovia, al quale Heller ha devoluto la somma di un milione e seicentomila dollari del Premio Templeton.