Oggi a Cannes viene assegnata la Palma d'Oro. Vent'anni fa a vincerla fu il film "L'Enfant - Una Storia d'Amore"
Aspettando la Palma d’Oro al miglior film della presente edizione del Festival di Cannes, ricordiamo quello dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne L’Enfant – Una Storia d’Amore, vincitore vent’anni fa del medesimo premio.
Ambitissimo tra i cineasti che considerino sé medesimi più autori che creatori di spettacolo, il premio francese è in genere sinonimo di una regia di prim’ordine, di taglio moderno, di stile rigoroso ed erede dei migliori movimenti europei (avanguardie storiche, neorealismo, nouvelle vague). Non fa eccezione quello attribuito nel 2005 a L’Enfant. Trattasi infatti di pellicola dalla regia mirabile, costruita su un lavoro di messa in scena apparentemente casuale, dimesso e minimale, ma in realtà molto ragionato, tecnicamente difficile da realizzare bene, nonché puntualissimo nella creazione di precisi e voluti significati attraverso il solo susseguirsi delle immagini.
Un tipo di cinema “dello sguardo”, che pochi al mondo son in grado di fare in egual misuratissima maniera. Con il loro cinema i Dardenne semplicemente guardano qualcosa o qualcuno, e dal modo in cui lo fanno magicamente nasce tutto l’incanto quasi metafisico delle loro storie. Spesso minimali, di perdenti o diseredati, di gente semplice, di incombenze ordinarie adempiute con difficoltà. Come in parte accade anche per L’Enfant, storia di una giovane coppia di genitori involontari, alle prese con un evento – la nascita di un figlio – più grande di loro.
Bruno, il padre, che vive di espedienti piccolo-criminali e si preoccupa quasi soltanto dei soldi che con quelli riesce a spuntare, pensando di fare cosa saggia – la coppia è indigente – cerca di vendere il piccolo alla criminalità legata al racket delle adozioni clandestine. Quando Sonia, la madre, lo viene a sapere ha un malore e viene ricoverata in ospedale. Allora Bruno riesce a recuperare il bambino, ma denunciato dalla compagna finirà in carcere. E qui alla fine, rendendosi conto dell’assurda meschinità delle sue azioni, pare mettersi sulla strada di una redenzione.
“Che la famiglia sia in crisi è evidente. La gente è sempre più sola, e i nostri personaggi, come nella vita, cercano qualcuno che li aiuti”. Citazione degli stessi Dardenne a proposito di L’Enfant che spiega la scelta di elaborare un soggetto così forte con una cornice filmica – come detto – di taglio espressamente moderno, atta a generare tratti quasi lirici in un film che altrimenti sarebbe stato solo tristezza e sconforto. Ma il grande skill dei fratelli belgi è proprio questo: trarre la poesia del quotidiano e dei gesti semplici in situazioni di disagio periferico, sia materiale che morale.
Se la precedente Palma d’Oro, quella per Rosetta del 1999, era conferita a un film con un messaggio mirato (la lotta – anche fisica – al lavoro precario), con quest’altra opera i Dardenne alzano la scommessa del loro cinema. La questione diventa il misurarsi con la vita stessa in una delle sue manifestazioni principali – il rapporto filiale – e insieme confrontarla con il dissolversi dei valori che la società sta conoscendo nel contemporaneo, con i disvalori che la permeano, a cominciare da quel feticcio assoluto chiamato denaro.
Tale scommessa riesce a metà, anche se il tramite stilistico mantiene la sua forte valenza di significante. Ottima la parte del ritratto del delinquentello scapestrato, disadattato e privo di valori, guidato dai propri istinti animaleschi – di sopravvivenza, di consumismo, di elementari soddisfazioni. Un po’ forzato pare invece il finale, dove la (presunta) catarsi del personaggio di Bruno si presenta improvvisa, più come un colpo di scena gratuito piuttosto che un punto di arrivo coerente della narrazione complessiva del film.
Nonostante ciò, comunque l’Enfant si segnala per la forte empatia con i personaggi che riesce a indurre nello spettatore, altra peculiare caratteristica dei due registi belgi.
Da rimarcare anche l’ottima prova attoriale di Jeremie Renier, che interpreta il protagonista Bruno con estrema naturalezza, lasciandosi guardare “senza rete” dalla sapiente macchina da presa dei Derdenne. È la forza intrinseca del piano sequenza, motore stilistico della cosiddetta modernità del cinema. Cioè quella modalità che, conservando in continuità tempo e luogo del racconto, coglie al loro nascere le azioni dei personaggi, amplificandone significati ed emozioni.
In questo senso i fratelli Dardenne continuano con maestria un filone che prende forma nella storia del cinema dai tempi dell’immenso Quarto Potere di Orson Welles (1941), passa attraverso il neorealismo italiano e arriva alle rivoluzioni stilistiche degli anni Sessanta.
Il loro cinema, pur partendo dalle suddette premesse, comunque non si risolve mai in un puro astratto esercizio di stile, fine a se stesso – come per alcuni autori dei movimenti citati è storicamente accaduto. Per i Dardenne il cinema è la vita, è la fisicità fragile o violenta dei personaggi-persone che lottano per l’emancipazione, per la redenzione sociale, per il lavoro, per la casa. È la poesia degli esclusi, è uno sguardo narrativo accorato e realistico sull’arte di sopravvivere nelle periferie impersonali del mondo contemporaneo.
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