Attenzione e fermento hanno accompagnato le prime parole di Leone XIV in tema di famiglia. Il Pontefice è infatti intervenuto tre volte sul tema, sviluppando una riflessione che è stata da più parti ritenuta restauratrice rispetto alle precedenti posizioni di Francesco.
In particolare, durante il Giubileo delle Famiglie, il papa ha definito il matrimonio come il canone dell’amore, legando intimamente la forma sacramentale all’aspetto antropologico e richiamando il primo come la piena realizzazione dell’altra.
Ma papa Leone è andato oltre. Ricevendo il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Prevost ha ribadito che la famiglia, fondata sull’unione stabile tra uomo e donna, è una “società piccola ma vera, anteriore a ogni società civile”, riproponendo i cardini della dottrina cristiana in materia.
Infine, a corollario di quanto finora evidenziato, in un messaggio inviato a un seminario sul tema Evangelizzare con le famiglie di oggi e di domani, Leone XIV ha riconosciuto le difficoltà che molte famiglie affrontano oggi, come la solitudine e la ricerca di modelli di vita illusori. Ha sottolineato l’importanza di testimoniare la grazia del matrimonio e di accompagnare le famiglie ferite con la tenerezza di Dio.
L’insieme delle dichiarazioni è dunque perfettamente coerente con la tradizione e il magistero della Chiesa, in sintonia anche con quello di Francesco, che nulla ha mutato in materia di famiglia, ma che ha sottolineato più volte la necessità di una conversione pastorale della Chiesa.
La stampa e i media si sono profondamente interrogati circa tali interventi, ravvedendo nello stile del papa americano un sostanziale passo indietro rispetto alle aperture del predecessore.
La questione della famiglia è chiaramente enorme e non basterebbero molti libri per trattarla con la dignità e il rispetto che essa merita. Eppure, nonostante tutto, ci sono delle considerazioni di fondo che certamente aiutano a collocare quanto la Chiesa sta affermando attraverso il nuovo successore di Pietro nell’alveo di una continuità che non è solo formale tra Leone e Francesco.
La prima considerazione riguarda la connessione stretta tra famiglia e amore. Origene, commentando il Cantico dei Cantici, affermava che “Quando l’anima ha lasciato il mercato, ha lasciato le piazze, si è fatta deserta, allora può amare”. Il problema di ogni famiglia non è anzitutto l’amore, bensì il dolore che ogni uomo sperimenta nell’abbandonare ogni luogo del mondo per trovare casa in sé stesso.
La tentazione dell’uomo è quella di non trovare casa in sé, ma di chiedere agli altri, compresi i figli o la moglie e il marito, di portargli quei fiori che possono rendere la sua vita bella e profumata. La questione dell’esistenza, però, non è che qualcuno ci doni i fiori che ci rendono vivi, ma fare un’esperienza che ci faccia fiorire.
La famiglia, allora, è un’esperienza di rapporto con la realtà e col dolore capace di generare vita – fiori – nell’uomo. La Chiesa si è sempre interrogata su quale fosse la forma migliore per realizzare questa esperienza e ha sempre trovato nell’amore tra uomo e donna il carattere più stabile per questa missione.
L’amore non è il fondamento della famiglia, per cui ogni sentimento ad esso affine potrebbe generarla, ma la forma con la quale l’umanità risponde alla sfida del dolore. Un amore non istintivo o libero in senso individualista, ma strutturato secondo quei tratti che ne consentono la trasformazione in vincolo di redenzione.
Leone afferma esattamente quanto diceva Francesco, quando nelle sue riflessioni invitava a riscoprire il vero valore della famiglia. Francesco, si potrebbe però obiettare, era profondamente “pastorale” ed era molto attento alle ferite dell’amore che segnano tante famiglie e che spingono molti a chiedere di essere riconosciuti e guardati come famiglia.
In realtà, Leone non modifica questo sguardo, ma lo inserisce in un contesto molto preciso: quello di una civiltà materialistica che ha sostituito la realizzazione spirituale della persona con l’esito di una performance che deve rendere tutti contenti e fare stare bene.
Ma che significa “stare bene”? Il bene non è una sensazione, ma una forma di fedeltà. Dice Ilario di Poitiers nel suo De Trinitate: “Fedele è colui che desidera conoscere ciò che ama. Nessuno può amare ciò che ignora”.
Essere famiglia non significa stare tranquilli, fuori da ogni responsabilità e pieni di amore, ma essere impegnati in un cammino di fedeltà a quello che è accaduto tra gli sposi, al punto tale da saper stare in piedi davanti al dolore.
Non ci sposiamo per stare bene, ma ci sposiamo per andare più a fondo di quello che ci è successo, desiderosi di intraprendere una strada di fedeltà che ci faccia capire – giorno dopo giorno – come il cuore dell’esistenza non sia essere bravi, essere a posto o essere aggiustati.
Il cuore dell’esistenza è essere presi, un po’ ammaccati come siamo, ed essere collocati al centro del cuore di Dio, in un di più di amore che fa fiorire il cuore e ci rende capaci di costruire casa per tutti.
Essere pastorali, allora, significa riconoscere che ognuno di noi vive tutto questo in una storia – in una strada di fedeltà – che va sempre conosciuta, capita ed esplorata con curiosità e gratitudine.
La famiglia generata dalla libera scelta d’amore di un uomo e di una donna non è l’esito di un gusto antico, tipico di un papa dal nome lontano, ma è la via della Chiesa e di Francesco che – con tutte le osservazioni che possono legittimamente essere formulate – non ha mai scardinato l’idea di famiglia separandola dal tema dell’impegno e del cammino che chi si sposa è chiamato a fare.
Polemizzare su questo, direbbe Basilio nella sua Regola, significherebbe “cercare di parlare bene dimenticandosi di provare a vivere bene”. Perché poi, quando ciascuno di noi è nella propria casa, quello che conta non è l’ideologia o il pensiero teologico che ciascuno dei membri della famiglia può proporre. Quello che conta è il desiderio e l’orizzonte di chi, ogni sera, ci dà la buonanotte.
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