Nei discorsi e nelle omelie finora pronunciati da papa Leone XIV si possono rintracciare le parole chiave del suo pontificato. Al centro c’è la Resurrezione
Ieri, nell’omelia pronunciata da Leone XIV sul sagrato di San Pietro in occasione della messa di insediamento, la parola unità è risuonata più volte. Non è la prima volta. Nei discorsi dopo la sua elezione le parole “unità” e “pace” sono tornate con frequenza. Unità e pace per la Chiesa, divisa tra conservatori e progressisti; unità e pace per il mondo che corre sulla china di una terza guerra mondiale. Sin dal suo primo discorso dalla Loggia delle benedizioni di San Pietro l’intento di fondo è apparso chiaro.
Leone XIV ha esordito con l’affermazione: “La pace sia con tutti voi! Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo Risorto, il Buon Pastore, che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie, tutte le persone, ovunque siano, tutti i popoli, tutta la terra. La pace sia con voi! Questa è la pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente”.
Il richiamo al Cristo risorto è tornato nel discorso al Collegio cardinalizio del 10 maggio. “È il Risorto, presente in mezzo a noi, che protegge e guida la Chiesa e che continua a ravvivarla nella speranza, attraverso l’amore ‘riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato’ (Rm 5,5).
A noi spetta farci docili ascoltatori della sua voce e fedeli ministri dei suoi disegni di salvezza, ricordando che Dio ama comunicarsi, più che nel fragore del tuono e del terremoto, nel ‘sussurro di una brezza leggera’ (1Re 19,12) o, come alcuni traducono, in una ‘sottile voce di silenzio’. È questo l’incontro importante, da non perdere, e a cui educare e accompagnare tutto il santo Popolo di Dio che ci è affidato”.
Il tema è ancora richiamato nel discorso ai partecipanti al Giubileo delle Chiese orientali del 14 maggio. “Cristo è risorto. È veramente risorto! Vi saluto con le parole che, in molte regioni, l’Oriente cristiano in questo tempo pasquale non si stanca di ripetere, professando il nucleo centrale della fede e della speranza. Ed è bello vedervi qui proprio in occasione del Giubileo della speranza, della quale la risurrezione di Gesù è il fondamento indistruttibile”.
In dieci giorni il cuore del Kerygma cristiano è risuonato in occasioni diverse. Non si tratta di un dettaglio. Appare evidente come al centro del pontificato di Leone stia la resurrezione di Cristo.
Il Giubileo della speranza trova nel Cristo risorto il dono che la Chiesa può e deve offrire ad un mondo cupo, avvitato in continui conflitti, incapace di aprirsi al senso della vita. Papa Leone riprende il Primear di papa Francesco – Cristo ci precede, sempre – e lo volge in chiave missionaria: “Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce. L’umanità necessita di Lui come del ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore” (Primo saluto di Leone XIV, 08 maggio 25).
La Chiesa è qui chiamata a dare priorità all’annuncio, alla comunicazione del Cristo risorto come fonte di unità, di pace, di giustizia. È quanto il Papa ha chiesto ai cardinali nel suo incontro con loro. “E in proposito vorrei che insieme, oggi, rinnovassimo la nostra piena adesione, in tale cammino, alla via che ormai da decenni la Chiesa universale sta percorrendo sulla scia del Concilio Vaticano II.
Papa Francesco ne ha richiamato e attualizzato magistralmente i contenuti nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, di cui voglio sottolineare alcune istanze fondamentali: il ritorno al primato di Cristo nell’annuncio (cfr n. 11); la conversione missionaria di tutta la comunità cristiana (cfr n. 9); la crescita nella collegialità e nella sinodalità (cfr n. 33); l’attenzione al sensus fidei (cfr nn. 119-120), specialmente nelle sue forme più proprie e inclusive, come la pietà popolare (cfr n. 123); la cura amorevole degli ultimi, degli scartati (cfr n. 53); il dialogo coraggioso e fiducioso con il mondo contemporaneo nelle sue varie componenti e realtà (cfr n. 84; Concilio Vaticano II, Cost. Past. Gaudium et spes, 1-2).
Riprendendo, alla lettera, Evangelii gaudium, il manifesto del pontificato di Francesco, il Papa ha voluto sottolineare, di fronte ai cardinali, una continuità non formale con il suo predecessore. Leone XIV è, in profondità, un figlio di papa Francesco che, con gli incarichi che gli ha conferito, gli ha, in qualche modo, preparato la strada per il ministero petrino.
Ciò non significa che avremo un Papa ripetitore del precedente. Al contrario Leone XIV ha già dimostrato una sua originalità, che dipende non solo dal suo carattere ma anche dalla sua formazione, agostiniana e non ignaziana. Nondimeno vi è un modello che in Leone ritorna e che costituisce un’eredità preziosa di Francesco: quello della Chiesa come coincidentia oppositorum, come conciliazione degli opposti.
Era il modello che Bergoglio traeva dal suo studio di Romano Guardini e che, come mostro nel mio volume Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e mistica (Jaca Book 2017), costituisce il cuore di una parte importante del pensiero cattolico tra 800 e 900.
Lo ha intuito a modo suo Vito Mancuso il quale, in un suo articolo per La Stampa dell’11 maggio, scrive: “Perché Papa Leone XIV mi faceva pensare fin dai primi istanti alla complexio oppositorum non è difficile dire: è americano ma anche europeo per le origini dei genitori; è nordamericano ma anche sudamericano per tutti gli anni trascorsi in Perù; ha una formazione teologica ma anche matematica; ha il rigore del canonista per il dottorato in diritto canonico ma è stato un interprete della Chiesa della misericordia di papa Francesco; è stato cardinale di curia ma anche prete missionario a contatto con i più umili.
Queste giuste considerazioni vengono però controbilanciate dall’autore da valutazioni critiche che dipendono da un modello ariano e neognostico per il quale “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”.
In realtà la suggestione che emana dalla figura del nuovo Papa è data dall’unire, nella sua persona, e ora nel suo ufficio, poli differenti. È il primo Papa nordamericano che, al contempo, può rivendicare il doppio passaporto essendo stato a lungo missionario in Perù, in America Latina. Figura ideale per ricucire la frattura, ecclesiale e sociale, tra i due continenti che Francesco non era riuscito a colmare. Al contempo egli appare colui che, fermo nella dottrina e avanzato sul terreno sociale, può sanare o quanto meno attenuare il contrasto tra conservatori e progressisti che contrassegna la Chiesa odierna.
Per questo è stato votato così rapidamente nel conclave ed è stato accolto dal popolo cristiano con gioia e con grandi aspettative. In un tempo travagliato il volto sereno del Papa che invita a non avere paura, il suo invito alla pace e al dialogo, l’invito “ad accogliere, come questa piazza, con le braccia aperte tutti, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, della nostra presenza, del dialogo e dell’amore” (Primo saluto di Leone XIV), è apparso come un raggio di luce. Nel mondo manicheo il Pastore che raccoglie le Pecore disperse è il Pastore della pace. Riecheggiando il grido di Francesco, Leone ha reso manifesto come il tema della pace sarà al centro del suo pontificato.
Rivolgendosi ai partecipanti al Giubileo delle Chiese orientali ha detto: “La pace di Cristo non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita. Preghiamo per questa pace, che è riconciliazione, perdono, coraggio di voltare pagina e ricominciare. Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo.
La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace. I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo!
La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime; perché gli altri non sono anzitutto nemici, ma esseri umani: non cattivi da odiare, ma persone con cui parlare. Rifuggiamo le visioni manichee tipiche delle narrazioni violente, che dividono il mondo in buoni e cattivi”.
La pace è una delle “tre parole chiave”, “pilastri dell’azione missionaria della Chiesa”, che il Papa ha richiamato di fronte al Corpo diplomatico. Le altre sono la giustizia e la verità. La Chiesa è chiamata ad impegnarsi su pace-giustizia-verità. Ciò significa che essa si muove sulla scia di quella polarità che Paolo VI aveva indicato nella sua Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi del 1975: quella tra evangelizzazione e promozione umana.
È l’Esortazione che tanto stava a cuore a papa Francesco, e questo proprio per la sua mirabile capacità di distinguere e di unire due momenti fondamentali: l’Annuncio e la sua fecondità storica, la pace di Cristo e la pace degli uomini. Questa sintesi è al centro del pontificato del Papa attuale, custode della verità dottrinale e, al contempo, aperto e deciso sul terreno della giustizia sociale, dei poveri, degli immigrati. Il suo nome è Leone, in omaggio al grande Leone XIII, il papa della Rerum novarum, la prima grande enciclica dedicata alla questione sociale. Lo ricorda lui stesso nel suo discorso ai cardinali.
Dopo aver detto di volersi muovere sulla scia del Vaticano II e di Evangelii gaudium, il Papa afferma: “Proprio sentendomi chiamato a proseguire in questa scia, ho pensato di prendere il nome di Leone XIV.
Diverse sono le ragioni, però principalmente perché il Papa Leone XIII, con la storica Enciclica Rerum novarum, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale; e oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro”.
Il richiamo a Leone XIII non è esaurito, per altro, dalla questione sociale. Nell’incontro con i partecipanti delle Chiese Orientali egli cita “Papa Leone XIII, che per primo dedicò uno specifico documento alla dignità delle vostre Chiese, data anzitutto dal fatto che ‘l’opera della redenzione umana iniziò nell’Oriente’ (cfr Lett. ap. Orientalium dignitas, 30 novembre 1894)”. Il nome di Leone XIII torna, quindi, più volte.
Rifarsi a lui nell’appellativo non era, però, scontato. Il cardinale Filoni ha rivelato a Il Fatto Quotidiano che era “seduto vicino al papa eletto: ha pensato di chiamarsi Agostino” (14 maggio 2025). Nondimeno la scelta è caduta poi su Leone. Con ciò lo scenario della complexio oppositorum si amplia ancora. Leone XIII non è, infatti, solo il papa della Rerum novarum ma anche della Aeterni Patris, l’Enciclica del 1879 che poneva lo studio della teologia e della teologia sotto le ali di san Tommaso d’Aquino. Ora Robert Francis Prevost è un agostiniano. “Sono un figlio di sant’Agostino” ha detto dalla Loggia di san Pietro.
Un figlio di Agostino che ha studiato e si è addottorato in diritto canonico, nel 1987, presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (“Angelicum”) di Roma. Ciò è singolare data la distanza che separa, nell’era moderna, agostinismo e tomismo. Anche in questo la storia personale di papa Leone dimostra di incarnare la complexio oppositorum cattolica. Da un lato abbiamo il primato agostiniano della grazia e, dall’altro, il senso storico-giuridico richiesto alla Chiesa dalla sua immersione nella storia. Grazia e natura sono i due fuochi di un’ellisse, di una tensione feconda che deve rimanere sempre aperta per rimanere viva.
È bello che in un tempo in cui il cristianesimo rischia di essere ora pelagiano ora gnostico, come osservava papa Francesco in Gaudete et exsultate, il realismo scolastico sia guidato dal primerea agostiniano della grazia. Papa Leone appare più riservato rispetto al suo predecessore, meno incline al contatto immediato con le folle, prerogativa che aveva caratterizzato anche Giovanni Paolo II. In ciò assomiglia più a Paolo VI e a Benedetto XVI.
Il cuore del suo pontificato appare però pienamente centrato in ciò che urge oggi: la riproposizione, nuova, persuasiva, della bellezza del Vangelo. Cristo, il Cristo risorto, non il “superuomo” del mondo mediatico, è il sole, mentre la Chiesa è la luna che vive di luce riflessa. Per questo, in corrispondenza alla dialettica ignaziana del grande e del piccolo tante volte richiamata da Francesco, chiunque eserciti l’autorità nella Chiesa deve “sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché lui sia conosciuto e glorificato” (omelia, 9 maggio 2025).
Per questo non avremo un Papa protagonista, in senso mediatico. Avremo però un Papa che non si tirerà indietro di fronte alle gravi scelte che impongono oggi alla Chiesa di essere al centro dei conflitti, luogo di conciliazione delle parti in lotta, ospedale da campo per i feriti della storia.
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