Pochi mesi fa, a ottobre, la tragedia di Leonardo a Senigallia. Ora il suicidio di Letizia a Jesi. E tanti altri ragazzi ancora.
Tante voci diverse, racconti non sempre coerenti. Bullismo, isolamento, esclusione, problemi che sembrano sempre insormontabili. Difficoltà che diventano montagne.
Sicuramente nel cuore di tanti studenti covano disagio e dolore. Una rappresentante d’istituto ha affermato: “Molti di noi non trovano più un posto sicuro nella scuola”.
C’è un grido che sorge sempre più forte dai banchi. Nelle classi, ogni anno, ogni giorno, assenze per dolori psicosomatici, attacchi di panico, ansia insostenibile da performance. Casi certificati di difficoltà nella comprensione, nella socializzazione, nell’attenzione e concentrazione. Assenze mirate per non affrontare “il mostro” di interrogazioni e verifiche. Balbuzie e sudori freddi solo per star seduti in classe.
Ma la scuola, a questi giovani, appare solo come un luogo in cui si misura quanto si vale? È solo un campo di battaglia (prof contro studenti, studenti in gara fra loro)? Dov’è finito il gusto di scoprire insieme la realtà? “Andare a scuola significa aprire la mente e il cuore alla realtà, nella ricchezza dei suoi aspetti, delle sue dimensioni. E noi non abbiamo il diritto ad aver paura della realtà! La scuola ci insegna a capire la realtà” (Papa Francesco 10 maggio 2014).
C’è un grido, a scuola. Forte, sempre più forte. Noi, adulti della scuola, lo sentiamo? Colpisce il nostro cuore?
I professori si lasciano commuovere da questa ferita che sanguina? Tutto corre come prima oppure inizia in chi insegna un desiderio di cambiare? Anche proprio il “come si fa scuola”, il perché si fa scuola, fino a guardare chi si ha di fronte e lasciarsi dalla sua presenza?
“Se un insegnante non è aperto ad imparare, non è un buon insegnante, e non è nemmeno interessante; i ragazzi capiscono, hanno ‘fiuto’, e sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, ‘incompiuto’,che cercano un ‘di più’, e così contagiano questo atteggiamento agli studenti” (Papa Francesco 10 maggio 2014).
La scuola e le istituzioni che la rappresentano sentono questa richiesta di aiuto? Le istituzioni devono restare in silenzio, o devono guardare in faccia questo grido?
Questo grido deve restare chiuso in una sacristia, in una preghiera per chi non ce l’ha fatta, deve restare nel nostro intimo; oppure questo grido si rivolge a tutti i livelli della scuola – sì, anche quelli della burocrazia, dei voti e delle leggi – per iniziare un cambiamento, una riflessione, un accorgersi dei problemi senza nasconderli che renda tutto più umano, più vivibile, più vero?
Umana sarebbe una scuola che dica: voglio ripartire da ciò che è accaduto, voglio guardarlo in faccia, voglio chiedermi: dove posso cambiare? Dove sbaglio?
Una scuola che dica continuamente: non sapevo, non c’entro, non sono responsabile di nulla, è una scuola morta, un’istituzione che vuole vivere solo per se stessa, per autoconservarsi; non un’istituzione che trovi il suo scopo ultimo in chi ci vive dentro, che voglia proteggere e avere cura di ogni ragazzo e di ogni persona per cui essa è fatta e per cui ha ragione vera di essere.
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