Caro direttore,
è un fatto che l’ordine internazionale uscito dal dopoguerra si sia ispirato alla “fede nei diritti fondamentali dell’uomo”, come recita il preambolo della Carta ONU, stabilendo in qualche modo un comune “credo secolare democratico”, il cui testo “sacro” è rappresentato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Fu una cesura epocale, sostenuta anche dalle sentenze del Tribunale di Norimberga che mettevano in discussione il dogma della sovranità assoluta dello Stato, segnando, nel diritto internazionale, l’ingresso della persona umana come oggetto di protezione in quanto individuo.
Sono queste le premesse su cui la civiltà occidentale ha costruito il nuovo ordine mondiale, di cui gli Stati Uniti si sono dichiarati campioni. Le celebri parole del discorso di insediamento del presidente John Fitzgerald Kennedy hanno rappresentato il programma di tutti i presidenti americani a partire dal dopoguerra: “pagare qualunque prezzo, portare qualunque peso, affrontare qualunque avversità, sostenere qualunque amico, opporsi a qualunque nemico, pur di garantire la sopravvivenza e il successo della libertà”.
La vittoria sull’Unione Sovietica fu possibile proprio sul presupposto della natura eretica dell’ideologia comunista rispetto a quei principi universali di libertà, ovvero sull’applicabilità al mondo intero dei principi americani che definiscono l’eccezionalismo americano. Non a caso, ad essere decisiva fu proprio l’azione di Reagan, che impostò il conflitto con l’URSS come una lotta del bene contro il male, richiamando la celebre metafora della città posta sulla collina.
Da questo punto di vista, il recente tentativo di ricostruzione della Russia imperiale da parte di Putin, di cui l’invasione in Ucraina è l’espressione più estrema, rappresenta a tutti gli effetti il ritorno dell’eresia politica rispetto ai valori usciti trionfanti dal dopoguerra prima e dalla caduta del Muro di Berlino poi. L’eresia di Putin si diffonde ormai da anni, facendo proseliti tra le destre europee, destabilizzando in ogni modo le società europee, e, con la vittoria di Donald Trump, arrivando a definire il quadro di un nuovo ordine mondiale.
Quando infatti Trump sostiene le destre sovraniste con lo scopo di dividere l’Europa, oppure minaccia i Paesi Nato come la Danimarca per acquistare la Groenlandia, o ancora, quando pretende il Canale di Panama, o quando afferma di voler introdurre dazi; in tutto ciò egli mostra sostanzialmente il volto del putinismo nelle relazioni internazionali, perché antepone un potere nazionale e imperiale al di sopra di ogni regola morale. Con ciò egli riporta gli Stati Uniti ad un passato mitizzato come età dell’oro, fuori dall’alleanza storica con l’Europa, che ha definito la civiltà occidentale, e soprattutto negando quell’ordine globale liberale costruito nel dopoguerra.
Con la vittoria di Trump l’eresia politica è diventata così la dottrina ufficiale del nuovo disordine mondiale. Secondo il sondaggio di Europa Electcs, il 78% dei russi avrebbe votato per Trump. Sì, Trump è la scelta della Russia. Per questo, come ha scritto il grande storico Timothy Garton Ash, Trump è sintomo e causa di un nuovo disordine mondiale. Siamo perciò davanti ad una vera e propria svolta epocale che, diversamente dal dopoguerra, fonda le relazioni internazionali sul potere e non sulla legittimità.
Questa svolta non alimenta grandi speranze di pace in virtù dell’anarchia insita nella competizione tra nazionalismi, nonostante le promesse di pace con cui Trump stesso si è presentato. Ci viene in soccorso la storia. L’età degli imperi alla fine del XIX secolo, a cui la nostra epoca somiglia sempre di più, fu una stagione di pace senza precedenti nel mondo occidentale, eppure essa preparava un’era di guerre mondiali anch’esse senza precedenti.
Il modus operandi di Trump è per certi versi simile a quello di Teddy Roosevelt, presidente americano imperialista all’inizio del Novecento, il quale fece costruire il canale di Panama e definì il “corollario Roosevelt”, secondo cui gli Stati Uniti potevano intervenire nell’emisfero occidentale qualora lo ritenessero opportuno e dialogare con gli altri “portando con sé un bastone”.
Anch’egli, coincidenza storica, fu visto come un uomo di pace, al punto da vincere il premio Nobel per la pace in quanto contribuì alla fine del conflitto tra la Russia e il Giappone nel 1905. A Roosevelt tuttavia, l’autocrazia zarista, roccaforte del conservatorismo politico, non suscitava particolari problemi; semplicemente cercava di assicurarsi un equilibrio tra potenze, che non servì tuttavia a scongiurare un conflitto che solo pochi anni dopo gettò il mondo nella tragedia. Come sostiene lo studioso Adler: “l’unica causa della guerra è l’anarchia che si produce ovunque uomini o nazioni cerchino di vivere insieme senza che ciascuno di loro voglia abbandonare la propria sovranità”.
Con l’eresia nazionalista divenuta nuovo credo politico, l’Unione Europea si trova oggi ad essere vista lei stessa come politicamente eretica, in quanto comunità sovranazionale, anche se incompiuta. Essa paga l’errore di non aver colto l’occasione storica che veniva dalla proposta della Comunità Europea di Difesa (CED), di cui De Gasperi fu promotore insieme a Spinelli nel tentativo di dare uno slancio federalista alla costruzione europea. Il rifiuto francese costrinse la Comunità europea ad avviarsi sulla sola strada percorribile, quella dell’interdipendenza economica, lasciando la politica in mano agli Stati.
E questa stessa linea fu sostanzialmente confermata dopo la caduta del Muro nel 1989, quando l’allargamento e l’ampiamento dell’UE non mutò il quadro esistente, nell’illusione propria del tempo che gli accordi economici potessero garantire la pace mondiale, obiettivo per cui era stata concepita. Ma una mera comunità economica non è garanzia di pace nel mondo, come ampiamente dimostrato nel corso della storia. Proprio nell’età degli imperi antecedente alla Prima guerra mondiale, ad esempio, l’economia era globale e tuttavia la competizione fu massima. Infatti, conservando la sovranità interamente nello Stato, l’interdipendenza economica esaspera i bisogni antagonisti e l’orgoglio delle nazioni.
Noi oggi abbiamo un mondo sempre più unificato economicamente e sempre più diviso dalle rivendicazioni patologiche degli opposti nazionalismi. Davanti a questo riflusso inaspettato della storia, l’UE si trova sempre più sola nel difendere disperatamente le sue conquiste dal suo nemico storico, il nazionalismo, che l’attacca dall’esterno e dall’interno.
Torno a Reagan. In un celebre discorso televisivo pronunciato nel mezzo della Guerra fredda, il 16 gennaio 1984, diceva: “immaginate con me per un momento che un Ivan e un’Anya si ritrovino, diciamo, in una sala d’attesa o sotto una tettoia per ripararsi dalla pioggia, in compagnia di un Jim e di una Sally. Si metterebbero a discutere dei rispettivi governi? O non si scambierebbero piuttosto informazioni sui figli e su cosa ciascuno di loro fa per vivere? Potrebbero addirittura decidere di andare tutti insieme fuori a cena una sera. Soprattutto avrebbero dimostrato che non sono le persone a fare le guerre”.
Il discorso ha per noi il valore di un monito. Il pericolo del nostro tempo consiste proprio in questo: nel ritorno del dogma del sovranismo come credo politico delle relazioni internazionali rispetto alla “fede” nell’universalità dei diritti della persona umana. Perché appunto non sono le persone a fare le guerre, bensì gli Stati.
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