In giorni di furioso e frequente richiamo alla disobbedienza civile, nella città da cui scrivo, in Sardegna, un vigile urbano dallo zelo invidiabile ha multato un turista per via di un finestrino lasciato aperto.
“Istigazione al furto” è stata la motivazione scritta sul verbale di contravvenzione. Chiunque, passando accanto alla macchina posteggiata, avrebbe potuto cadere nella tentazione di rubare ciò che c’era nell’abitacolo, rubare il veicolo o peggio: usarlo per atti contrari alla legge.
Incredulo, il turista ha chiesto spiegazioni ai proprietari degli esercizi commerciali della zona, per capire almeno se avesse letto bene. Sì, aveva letto bene. Ha chiamato allora il suo avvocato, ma niente da fare. Così ha dovuto prender atto della rigidità del codice della strada e ha pagato la multa entro, ovviamente, i cinque giorni che garantiscono uno sconto: se l’è cavata pagando 29 euro invece che 41.
L’articolo 158 del codice della strada – come forse non molti sanno – prevede che “durante la sosta e la fermata il conducente deve adottare le opportune cautele atte a evitare incidenti e impedire l’uso del veicolo senza il suo consenso”. Per evitare un uso pericoloso e contrario alla legge del proprio veicolo, sul conducente ricade l’onere di adottare tutte le cautele necessarie per impedirlo. In caso contrario è responsabile di “induzione a commettere reato”. Che sul concetto di proprietà privata, in Italia, ci sia un po’ di confusione, è chiaro.
Ad ogni buon conto, un uomo sceso in fretta dalla propria auto si è visto così spillare una trentina d’euro. Lo zelo dell’agente che ha firmato il verbale ha causato facile ironia e numerose perplessità, regalando la notizia a qualche sito di news nazionale. Qualche giornalista ha intervistato allora il capo della polizia locale: le sue dichiarazioni hanno aggiunto la giusta dose di beffa al proverbiale danno.
Una premessa così lunga per dire cosa?
Per dire che in questi giorni librerie, Amazon e qualsiasi altro spacciatore di libri possono offrire un libro interessante: Noi e lo Stato. Siamo ancora sudditi? (Ibl Libri 2019) a cura di Serena Sileoni e con il contributo di altri nomi illustri di studiosi, giornalisti e scrittori.
Il libro è la “seconda stagione” di quel che ci era già stato raccontato da Nicola Rossi in Sudditi. Un programma per i prossimi 50 anni (2012): si parla di nuove e più bizzarre situazioni di sudditanza verso il Leviatano. L’indignazione è assicurata. E come ho facilmente dimostrato, si possono aggiungere infiniti numeri di episodi e capitoli.
Nell’introduzione al testo, Sileoni chiede retoricamente a che punto sia il nostro rapporto con lo Stato. Siamo noi cittadini o siamo noi sudditi? La risposta, abbastanza pessimista, si snoda di capitolo in capitolo.
Alfonso Celotto ci spiega l’Antilingua dei burocrati, il “barbaro dialetto delle pubbliche amministrazioni”, come apostrofato da Vincenzo Monti. Esso è incomprensibile e fumoso e settario. Così barbaro da passare indenne attraverso globalizzazione e rivoluzione digitale.
Ma se l’Antilingua è lo strumento, il fine è l’ipertrofia burocratica, come descritta da Vitalba Azzolin, che ricorda la vergogna di essere il terzo sistema burocratico più complesso al mondo: un Moloch che si nutre di una legiferazione inflattiva ben vista solo dai moderni mandarini.
Tutte le burocrazie sono uguali, ma quella della giustizia è più uguale delle altre: Giovanni Fiandaca e Alessandro Barbano ripercorrono i profili di una giustizia in cui sentimenti e media hanno ricreato un sentimento da inquisizione, in cui le leggi vengono interpretate come armi nelle mani di pm capopopolo e non più come garanzie ai cittadini. Il calvario di Ilaria Capua ben rappresenta questa deviazione del modello.
Un così imponente sistema di controllo e complicazione della vita dei cittadini ha un costo enorme: Nicola Rossi ripercorre la lunga e tortuosa storia dei tentativi di spending review italiani. Il via è dato dal Libro bianco sulla spesa pubblica di Mario Ferrari Aggradi, ministro del Tesoro del Governo Colombo I, che per primo fa notare come alla rapida crescita della spesa non abbia fatto seguito né un aumento della qualità né dei servizi offerti.
L’assenza di volontà da parte dello Stato/Sovrano di ridurre lo strumento principe per la realizzazione di sudditi è, a distanza di cinquant’anni, del tutto evidente.
Carlo Amenta e Luciano Lavecchia entrano nel dettaglio di uno degli esperimenti meglio riusciti nel processo di costruzione del consenso e dei sudditi: le politiche di coesione territoriale a beneficio del Mezzogiorno. Un fallimento, se si guarda alle intenzioni di chi era in buona fede; un successo, per l’espansione dello Stato assistenziale.
Il costo della generosa e asfissiante onnipresenza dello Stato/Re, ça va sans dire, è indissolubilmente legato a due aspetti: fisco e debito.
Il ricorso imponente al debito pubblico è magistralmente spiegato da Giampaolo Galli, che punta il dito – come del resto fa l’intera comunità accademica – sulla natura di tassazione futura del debito stesso, natura che solo a cittadini/sudditi sfugge e che solo sfuggendo può venir tollerata.
Sul fronte della tassazione, Dario Stevanato opera una necessaria opera di debunking nei confronti della litania più odiosa, puntualmente sulla bocca di sudditi e pubblicità progresso: “pagare tutti per pagare meno”, litania che capovolge nel più realistico “pagare tutti, pagare di più”. A fronte di maggiori entrate non esistono automatismi per una riduzione delle aliquote; al contrario, invece, casse dello Stato più ricche potrebbero senz’altro creare legislatori ancora meno parsimoniosi nella gestione del denaro del contribuente.
Tutto ciò lo Stato non lo vuole sapere però, e così si ostina a vessare il cittadino, ritenendolo, come raccontato da Manuel Seri, sempre in odore di evasione. Per controllarlo ecco messi a punto, governo dopo governo, tutta una serie di strumenti invasivi e miopi, che altro non producono se non un clima di tesa diffidenza e un taglio degli investimenti.
L’ansia che i cittadini versino quanto dovuto, spiega Alessia Sbroiavacca, non ha effetti inversi nella mente dei burocrati: l’estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione tra pubblico e privati è tutt’oggi, anche se meno di ieri, un percorso ad ostacoli.
In un quadro così poco rassicurante, ecco che le grandi sconfitte sono, in definitiva, due: la proprietà e la libertà d’impresa. Le quotidiane sconfitte di quest’ultima vengono raccontate da Susanna Tamaro, che con freschezza riesce a farci sopportare racconti incredibili di controlli e burocrazie deliranti in alcune aziende agricole.
Giuseppe Portonera, nel capitolo conclusivo, ci ricorda invece come il nostro paese sia, secondo i più importanti Index internazionali, un paese molto poco favorevole ai property rights. Questo lo doveva sapere anche il vigile urbano che si è premurato di multare il turista in vacanza.
In conclusione, se la risposta, che spero di non aver anticipato per amor di copie vendute, arriva al termine della lettura, nel medesimo momento sorge spontanea una nuova domanda: perché ci piace così tanto avere padroni? Forse per un rifiuto della responsabilità, come suggerito da Claudio Martinelli? Probabile, ma è almeno possibile spezzare l’incantesimo in cui cadono coloro i quali da sudditi ci trattano, anche quando sono parte delle terminazioni più remote della bestia?
Ebbene il consiglio è quello di regalare questo libro non tanto agli amici liberisti, libertari, repubblicani, anarcoidi con cui invece riderete del vigile urbano di cui sopra, bensì di regalarlo agli amici e ai conoscenti che per lo Stato lavorano, trasformandolo da concetto metafisico e amorfo a cosa fatta di occhi, mani, ossa, sangue, timbri, porte, sportelli e multe; agli amici che, dibattendo di tassazione, prendono sempre le parti de le-casse-dello-Stato™, così che anche loro si chiedano quale valore, tra l’obbedienza e il buon senso, viene prima.
E ovviamente non scordate patenti per muli e finestrini aperti.
(Alessandro Cocco)