Massimo Camisasca e Vincent Nagle, “Stare”: la riproposta, in tempi di crisi culturale e umana, dell’unico sguardo che può dare un senso al male
Più passano gli anni, più della morte ci si vorrebbe liberare. Con qualche piccolo e parzialissimo successo peraltro, perché le possibilità di cura aumentano e la vita media si allunga. Però la formula dell’immortalità non ci è stato dato di trovarla e quindi la morte arriva, inesorabile, per tutti.
Al massimo quindi si può fare finta di liberarcene, esorcizzandola con formule apotropaiche, oppure provando a eliminarla dal linguaggio (e quindi la morte diventa la dipartita, la scomparsa, la mancanza…).
Massimo Camisasca, teologo, già vescovo di Reggio Emilia, fondatore della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo, e Vincent Nagle, sacerdote della San Carlo e cappellano della Fondazione Maddalena Grassi di Milano, nel libro Stare (Ares, 2025) ci riportano alla posizione con la quale porsi (stare, appunto) davanti ai limiti che l’uomo sperimenta, dei quali la morte è il limite supremo.
Un agile quanto pregnante volumetto che non dispensa istruzioni per l’uso ma argomenta l’unica ragionevole prospettiva che ci consente di guardare alla morte senza disperazione: la fede. Solo la fede in Dio può portare a chiedere che nel limite si manifesti la Grazia con la quale capire perché vale la pena vivere ogni vita, fino in fondo.
Come sottolinea Camisasca, ciò che ha portato l’uomo di oggi ad evitare di incrociare lo sguardo con la morte è un percorso che viene da lontano, da quel tentativo in atto da secoli di rifiuto del limite per ricreare la realtà secondo un progetto da superuomini. Che non ha portato solo a voler oscurare la morte ma, per esempio, anche a voler “cancellare” gli anziani che alla morte si approssimano.

Non ancora con la modalità descritte in un film fantascientifico (per ora) di qualche anno fa come Plan 75 nel quale un piano ideato dal governo giapponese chiede agli anziani di sottoporsi volontariamente all’eutanasia al raggiungimento del 75esimo anno perché ormai inutili in una società che si basa sull’utilitarismo.
Non siamo ancora a questo terribile livello, ma la progressiva marginalizzazione che fa dell’anziano un peso da sopportare del quale liberarsi è sotto gli occhi di tutti. D’altronde già San Giovanni Paolo II sottolineava l’esistenza di una “cultura della morte” sempre più pervasiva nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire insopportabile il numero delle persone anziane. Più recentemente, anche Papa Francesco ha ammonito contro i pericoli di una cultura del relativismo che si identifica come cultura dello scarto.
L’anziano perde progressivamente non solo l’efficienza fisica ma anche la mobilità, spesso la memoria e la parola. Cosa gli rimane? Rimane la dignità che non dipende da ciò che uno può fare, scrive Camisasca. E rimane il rapporto con Dio, che non viene meno nemmeno quando una persona è un malato terminale.
Peraltro in una cultura dello scarto fare il passaggio dall’anziano al malato è un attimo, anche perché le due categorie spesso si identificano. E gli esempi descritti da Nagle, forte della sua esperienza come cappellano della Fondazione Maddalena Grassi di Milano, sono significativi.
Il sacerdote americano è in sintonia con don Camisasca nell’evidenziare che anche nei confronti del malato si è radicato un atteggiamento che muove dalla non accettazione del limite. E un corpo non più efficiente, indebolito dalla malattia, è un limite oggettivo sotto gli occhi di tutti che ci costringe a sperimentare la nostra finitezza di creature. Quella finitezza che facciamo fatica a sopportare e vorremmo eliminare in tutti i modi. Uno dei quali è il clamore mediatico con il quale ci vengono presentati i casi estremi di malattia e che ha lo scopo di provocare la massima angoscia fino ad indurci a considerare accettabile una legge che ponga fine alle sofferenze. Superuomini che non ce la fanno ad essere tali e quindi si ammazzano. Una traiettoria tragica.
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