Probabilmente Colson Whitehead resterà nella storia della letteratura americana per il bellissimo La ferrovia sotterranea, pubblicato nel 2016 negli Stati Uniti con il titolo di The underground railroad, vincitore l’anno successivo del Premio Pulitzer per la narrativa.
Il libro delinea le caratteristiche dello scrittore afroamericano che si erano già rese evidenti nei suoi libri precedenti e saranno confermate in quelli successivi, quelle del romanzo storico dedicato al suo popolo, in quel caso la storia di due schiavi nel XIX secolo che tentano di scappare dalla piantagione seguendo quella ferrovia sotterranea realmente esistita che conduceva negli Stati del Nord. Vincitore di un secondo Pulitzer nel 2020 con I ragazzi della Nickel, Whitehead descrive con puntiglioso dettaglio le condizioni di vita quotidiana degli afroamericani in diversi periodi storici del suo Paese.
Il suo ultimo libro, Il ritmo di Harlem (Mondadori 2022), che ha presentato di persona a Roma lo scorso luglio, conferma la sua vena, usando in questo caso lo stratagemma dei cosiddetti “heist movie”, un sottogenere cinematografico del film giallo che racconta la storia di un gruppo di persone, piccoli criminali che mettono in atto un grande colpo, nel caso del libro il furto di gioielli in un albergo di Harlem.
Al quartiere nero per eccellenza di New York è dedicato tutto il libro, e se la trama passa spesso in secondo piano con il rischio di perdere talvolta il filo della vicenda, emerge tutta l’incredibile capacità storica dell’autore di descrivere nel più piccolo dettaglio la vita quotidiana dei protagonisti, le strade, le abitazioni, i negozi, i locali. Ambientato nei primi anni 60, è uno spaccato che consente di immergersi nella realtà di quella gente, in un momento storico in cui il segregazionismo è ancora ben presente nella società americana (il primo personaggio non afroamericano, un poliziotto corrotto, appare solo a pagina 162), ma cominciano a emergere le esigenze di uscire dal ghetto: “Nel corso degli anni, Carney aveva raccontato alcuni aneddoti sulla sua infanzia […] Venire morso dai ratti e spidocchiato dall’infermiera della scuola, gli inverni senza riscaldamento, la volta in cui si era svegliato all’Harlem Hospital con la polmonite senza sapere come ci era arrivato”.
Protagonista è Ray Carney, un padre di famiglia che cerca di sbarcare il lunario per la sua piccola famiglia, figlio di un balordo della malavita, e che sogna un futuro migliore per loro, ma poi si ritrova implicato nelle losche attività del cugino Freddie. Entra così in una spirale sempre più complessa di compromessi e insidie che lo portano verso una strada in cui perdere la sua reputazione e onestà.
Forse l’intensa ricerca storica potrà annoiare chi cerca il giallo che sottintende tutto il libro, ma non è questo l’obiettivo di Whitehead, più intenzionato a far conoscere al mondo la realtà e la storia della sua razza, probabilmente oggi sconosciuta ai loro stessi appartenenti, ad esempio il sottile razzismo e la corruzione presenti tra loro stessi. A far sì che Carney decida di passare dalla parte sbagliata della strada è infatti la delusione provata quando cerca di entrare in un esclusivo club di neri di successo e di potere che potrebbe aprirgli la strada per l’emancipazione, ma nonostante la mazzetta versata al presidente, un losco politico locale, non viene accettato. Già, perché nella stessa comunità di colore c’era razzismo, i neri di pelle più chiara discriminavano quelli di carnagione più scura, le cosiddette “more più nere”. Bisognava avere il colore giusto per emergere. Carney è vittima di questo razzismo già in famiglia. La moglie infatti è figlia di una coppia della medio-alta borghesia che disprezza le sue origini balorde e lo tiene alla larga.
Carney è mosso da un sentimento di rivalsa che avrebbe presto agitato tutti gli afroamericani d’America, ma la domanda che il libro pone è sostanzialmente l’ineluttabilità del destino razziale e la vera natura del potere: avrebbe potuto Carney costruire una vita diversa? E a che prezzo avrebbe potuto conquistare altri diritti? “Come molti abitanti di Harlem, Carney era cresciuto con i vetri rotti al parco giochi, la sfilata di crudeltà sul marciapiede ogni volta che uscivi di casa, e gli schiocchi degli spari. […] A volte New York era così, giravi l’angolo e ti ritrovavi in una città completamente diversa, come per magia. 140th Street era buia e silenziosa, e Hamilton Place era una festa. Due porte più in là c’era un bar con la fila davanti – uno di quei locali bebop, a giudicare dal suono – e accanto al bar alcuni ispanici bevevano vino e giocavano a domino alla luce di un negozio di barbiere”.
“Fai quello che devi fare Carney, fallo e basta” gli dice una donna spacciatrice di sesso e consigli preziosi. E così farà, pagandone le conseguenze.
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