C’è un genere letterario, l’inno, che risale ai primordi della letteratura occidentale, all’insieme delle opere attribuite ad Omero, dove compare in trentatré esemplari di diversa lunghezza.
L’inno nasce infatti nell’ambito dei cantori imitatori di Omero che si esibiscono con le loro composizioni in città e regge di tiranni: come preludio della loro performance rivolgono una preghiera in lingua e metro epico ad una divinità, e negli inni più lunghi inseriscono una parte narrativa con episodi riguardanti il dio o la dea.
Ricordiamo ad esempio l’inno a Demetra, uno dei più lunghi, quasi cinquecento versi: “Comincio a cantare Demetra, dea venerabile dai bei capelli, lei stessa e sua figlia dalle sottili caviglie che Ade rapì, e lo permise Zeus dal grave tuono, dalla vasta fronte, di nascosto da Demetra dalla spada d’oro, splendida nei frutti”.
Nei pochi versi del proemio è annunciato il dramma della madre, la venerabile dea da cui aveva avuto inizio la coltivazione sulla terra: Demetra ha perduto la figlia, rapita dal dio degli Inferi con la connivenza di Zeus e l’omertà quasi totale degli altri dèi, verso cui ha un corruccio che sarà difficile placare e che coinvolgerà anche il mondo degli uomini in una carestia drammatica. Al termine del suo vagare in cerca della figlia trova rifugio e ospitalità ad Eleusi, dove si propone di rendere immortale un bambino che le è affidato; ma l’immortalità non è per gli uomini neppure come dono divino: il tentativo è frustrato dall’intervento intempestivo della madre del bimbo. La dea lascerà comunque in dono ad Eleusi la religione misterica, che sarà per secoli una delle certezze della vicina Atene.
Nello sviluppo della letteratura greca l’inno s’inserisce all’interno di altri generi, mutuandone lingua letteraria e forma metrica. Così Saffo invoca Afrodite ricordandole un episodio di cui lei stessa è stata protagonista: “vieni qui, se anche un’altra volta, udendo da lontano la mia voce, mi hai ascoltato, e lasciando l’aurea casa del padre sei venuta”.
E nelle tragedie troviamo brani corali che richiamano la forma dell’inno, come questa preghiera dell’Agamennone di Eschilo che ricorda al dio supremo la sua unicità nell’aiuto ai mortali: “Zeus, chiunque mai sia, se con questo nome gli è caro essere invocato, con questo l’invoco. Non ho nulla da paragonargli, pur ponderando ogni cosa, se veramente il vano peso dell’angoscia voglio gettare… Egli ha condotto l’uomo ad essere saggio, stabilendo che avesse valore l’apprendere attraverso la sofferenza”.
L’età ellenistica riprende il genere dell’inno nella forma omerica, o con alcune varianti linguistiche e metriche: Callimaco finge che i suoi inni siano proclamati in occasione di feste religiose, come il bagno rituale della statua di Atena o la processione delle primizie del raccolto per la dea Demetra; e secondo le caratteristiche del genere narra episodi mitici sul rapporto fra gli dèi e gli uomini, con feroci punizioni e doni consolatori: così Tiresia, divenuto cieco per aver involontariamente visto Atena, riceve in cambio l’arte di veggente: “Lo renderò profeta degno di canto per gli uomini futuri, di gran lunga superiore agli altri: conoscerà gli uccelli, quale è propizio e quali volano invano, e di quali sono funeste le ali”.
A sua volta il filosofo Cleante dedica un inno a Zeus riecheggiando Eschilo ma unendovi i princìpi dell’immanentismo stoico: “Gloriosissimo fra gli immortali, dio dai molti nomi, onnipotente in eterno, Zeus, principio della natura che tutto governi con la tua legge, salve!”.
In seguito sarà la poesia cristiana a ridare vita all’inno, sia nel suo aspetto narrativo sia come celebrazione liturgica. Sull’origine dell’utilizzo degli inni abbiamo le testimonianze di Agostino e Paolino da Nola: in particolare Agostino racconta che nel 387, durante la persecuzione dell’imperatrice Giustina che sosteneva l’eresia ariana contro l’ortodossia di Ambrogio, “la folla dei fedeli vegliava ogni notte in chiesa, pronta a morire per il suo vescovo”. Si cantavano allora inni “per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella tristezza”.
Sotto il nome di Ambrogio stesso ci sono giunti diversi inni, non tutti autentici: ma abbiamo nuovamente la testimonianza di Agostino sull’autenticità di alcuni di essi, “Aeterne rerum conditor, Deus creator omnium, Iam surgit hora tertia e Veni redemptor gentium”. Nel primo è invocato il Creatore all’alba, quando canta il gallo, e si ricorda il pentimento di Pietro: “Per questo il navigante ritrova le forze / e i flutti del mare si calmano, / al canto di questo la stessa pietra della Chiesa / lava la sua colpa”. E Iam surgit hora tertia celebra l’ora della morte di Cristo in Croce: “Questa è l’ora che pose fine / al letargo del crudele peccato / e dissolse il regno di morte / e tolse la colpa dal tempo; / da quel momento ormai l’età beata / iniziò per grazia di Cristo, / la verità della fede riempì / le chiese per tutto il mondo”.
L’idea di riprendere il genere dell’inno celebrando le feste dell’anno liturgico cristiano affascinò Alessandro Manzoni, che ne iniziò la composizione. Benché l’idea originaria non sia stata completata, gli Inni Sacri che ci restano testimoniano l’adesione del poeta ad un genere rivissuto con profondità di fede, soprattutto la Pentecoste, dedicata alla Chiesa Madre dei Santi e allo Spirito Santo che le ha dato forza e capacità di missione.
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