Esiste ancora il genius loci, lo spirito del luogo che secondo gli antichi esprimeva i caratteri fisici di un territorio attraverso la creazione artistica? Noi crediamo di sì e pensiamo che abiti dalle parti di Udine, di Pordenone e di Gorizia. Non si spiega altrimenti l’eccezionale fioritura poetica che ha accompagnato il Friuli negli ultimi decenni del Novecento e all’inizio del Duemila. Ne dà splendida testimonianza Il Friuli dei poeti. In viaggio con la poesia in una terra di confine, a cura di Gian Mario Villalta, uscito in due volumi pochi mesi fa per conto della piccola casa editrice di Giovanni Santarossa di Pordenone.
La mappa poetica di Villalta comprende 69 poeti friulani e ci fa da guida in un affascinante percorso tra la pianura, i fiumi, le lagune, i monti e le colline, le valli e le risorgive, le città e i paesi, in un intrico di paesaggi e di lingue, di varietà straordinaria in una regione di limitate dimensioni, ferita da eventi storici drammatici – tra tutti il terremoto del 1976 – e mutata radicalmente da un impetuoso sviluppo industriale, che si è lasciato alle spalle per sempre la millenaria civiltà contadina senza snaturare del tutto la peculiarità del paesaggio.
Forse è proprio questa condizione di marginalità a favorire l’emergere di una coscienza poetica in tanti autori: i confini fanno bene alla poesia, essendo contemporaneamente difesa di identità e soglia per mondi diversi.
La storia della poesia friulana non può iniziare che da un friulano di adozione come Pier Paolo Pasolini che con Poesie a Casarsa nel ’42 utilizza un dialetto della riva destra del Tagliamento, di cà da l’aga (di qua dall’acqua) che mai era stato scritto, innestando sulla parlata locale la forza della grande poesia europea di cui si stava nutrendo il giovane poeta nei suoi studi universitari a Bologna.
Non solo: con la fondazione di una rustica Academiuta di lenga furlana, nel ’45, darà vita alla prima delle tante “amicizie poetiche” che segneranno gli sviluppi culturali in Friuli negli anni successivi, fino al Pordenonelegge, il festival letterario più bello d’Italia, che tanto spazio assegna alla poesia e di cui Villalta è direttore artistico.
A Pasolini seguono due poeti che, pur nella profonda diversità, sono a lui legati: Biagio Marin, il grande patriarca di Grado, che deve proprio a Pasolini la scoperta critica della sua poesia, e David Maria Turoldo, nato a Coderno, un piccolo paese nel cuore del Friuli, sacerdote e vibrante predicatore nella Milano del dopoguerra, poi protagonista dell’inquieta stagione conciliare.
Entrambi erano presenti ai funerali di Pasolini a Casarsa nel ’75; Marin scrisse in quell’occasione le splendide litanie El critoleo del corpo fracassao (Lo scricchiolìo del corpo fracassato), Turoldo pronunciò l’orazione funebre definendo Pasolini “amico e fratello”.
Non mancano poi i nomi che presto si affermarono a livello nazionale, come Elio Bartolini, attivo nel cinema e nella narrativa, che denuncia nella sua poesia in friulano gli smarrimenti della modernità (si veda l’amaro componimento riportato, Nel Friuli dei “coltivatori diretti”) e come Amedeo Giacomini, nume tutelare di tanti poeti friulani successivi, qui colto in alcuni splendidi testi, come Preghiera e In memoria.
Vive appartata nel piccolo paese di Meduno (“scala di grida assopite”), una delle più grandi voci poetiche del nostro tempo, quella di Ida Vallerugo. Splende sempre di più con il passare degli anni l’incomparabile forza della sua raccolta principale, Maa Onda, compianto per la morte della nonna Regina, fantasma e codice per addentrarsi negli abissi del passato e del presente. Vallerugo salta una generazione per attingere al pozzo sacrale della memoria.
A lei si rivolge il grido “Il morire di ogni giorno, Maa, è la morte/ e io non ne posso più di morire, Madre”, ma anche la forza di “credere, credere ancora in quella cosa/ seppellita che si chiama poesia” (se ne dà qui una traduzione dall’originale friulano). Merito dell’antologia è anche quello di farci conoscere figure singolari come Federico Tavan, in cui la fragilità psichica si dispiega nella voce della poesia, come riscatto e abbandono.
Villalta intitola uno dei capitoli più densi “Insieme ognuno per la sua strada”, riassumendo felicemente la condizione di tanti poeti, nati tra gli anni 50 e 60, che, senza costituire un gruppo, vivono il gesto poetico come un’offerta di solidarietà e di amicizia. Si tratta di autori di importanza indiscutibile, protagonisti, ancora oggi, di una stagione poetica altissima.
Compaiono i nomi di Mario Benedetti (di lui si veda la folgorante “Che cos’è la solitudine”), Ivan Crico, Nicola Garlini, Vincenzo Dalla Mea, Flavo Santi, lo stesso Villalta. E poi Pierluigi Cappello, il poeta che apparteneva al cielo. Condannato a una lunga malattia, “ha vissuto grazie alla poesia e con la poesia”, come ha scritto di recente Francesco Napoli, inserendolo nella sua antologia Poeti italiani nati negli anni ’60.
Ma bisognerebbe ancora soffermarsi sui nitidi versi di Francesco Tomada, sulla ricerca della profondità di Giovanni Fierro, sullo sguardo di Antonella Sbuelz (“Si scrive quando mancano parole”), sulla lingua precisa di Mary Barbara Tolusso, sull’intensità del quotidiano di Roberto Cescon. Pur trascurando di necessità tanti altri autori, si resta abbagliati da tanta bellezza.
E poi, come scrive Villalta riferendosi a Casarsa e dintorni, avvertiamo dietro questi versi “i prati, i coltivi, le giornate scandite dal suono delle campane, l’acqua chiara del Tagliamento e la distesa dei sassi che biancheggia nel sole, le fioriture e i raccolti in Un paese di temporali e di primule, le sere che addolciscono la ruvidezza di vite faticose, le sagre, le processioni e, nelle case, il culto domestico vegliato dalle madri”. Ce n’è abbastanza per mettersi in macchina o salire sul primo treno per inseguire queste visioni. Mandi, Friuli.
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