Più di quarant’anni fa, nel 1978, alcuni studenti universitari valtellinesi si ritrovarono con una comune esigenza, quella di trasmettere l’entusiasmo per l’incontro con una esperienza cristiana capace di dare risposte alle esigenze umane e alle domande esistenziali. Nasceva così l’esperienza di Quaderni Valtellinesi che ora torna rinnovato in edicola e online e si propone come punto di riferimento di un modello di sviluppo locale che punta sull’eccellenza del territorio: il sottotitolo è infatti, significativamente, La cultura locale e il mondo.
Con Dario Benetti, presidente della Cooperativa editoriale Quaderni Valtellinesi e direttore responsabile del periodico, ripercorriamo i passi di questa storia che arriva fino a oggi.
Quali erano le realtà di riferimento per la vostra esperienza?
In quegli anni l’esempio che veniva dal dissenso nelle società sottoposte al regime dittatoriale comunista fu un riferimento importante. Ricordo l’incontro con Vaclav Belohradsky che ci raccontò l’esperienza di Charta ’77. Una “società parallela”, nonostante le censure e le persecuzioni, era in grado di vivere in quei Paesi e di creare organi di informazione popolare. Là riprendeva “l’esperienza del cristianesimo nascente” con “comunità autonome e creative”. “La società parallela – ci raccontava Vaclav – non ha a disposizione i mezzi forniti dallo stato moderno alla società conformista: i libri si battono a macchina o si scrivono a mano. La gente si incontra nelle case private…”. Era il Samizdat (autoeditoria) e auguro a tutti di fare un’esperienza come la nostra: la realtà ci parlava, niente era banale. Per alcuni anni le nostre case si trasformarono in redazioni dove si battevano a macchina i testi e si impaginavano i numeri per la tipografia.
Con chi vi siete trovati in sintonia?
Innumerevoli sono state le persone incontrate nel corso di questi anni, spesso decisive umanamente e culturalmente, e tutte hanno lasciato qualcosa di sé in quello che siamo ora, penso, tra gli altri, in ordine sparso, a Leo Moulin, Henri Stahl, Paul Guichonnet, Sante Bagnoli, Massimo Guidetti, Gino Girolomoni, Vittorio Messori, Sergio Quinzio, Ulderico Bernardi e tanti altri. Per i primi anni Robi Ronza fu il direttore responsabile, fino al 1990 quando alcuni di noi divennero pubblicisti. Da subito lo slogan dei quaderni, ancora attuale, fu: “la cultura locale e il mondo”.
Qual era il messaggio?
Sulle orme di quanto testimoniatoci da Simone Weil nel sui libro l’Enracinement (tradotto da edizioni di comunità con La Prima Radice), capimmo che gran parte dei problemi della società contemporanea derivano dallo sradicamento, dall’individualismo che stacca l’uomo dalle sue radici. Solo chi vive a fondo la propria identità non ha paura di quella altrui.
Ha ancora senso oggi, in un’epoca di globalizzazione, parlare di “cultura locale”?
Certamente, ormai in molti capiscono che dietro il tanto propagandato multiculturalismo c’è un grande equivoco e un chiaro fallimento. Dobbiamo in realtà mirare all’interculturalismo, ad una sintesi superiore tra le culture. Il multiculturalismo teorizza ghetti in cui, alla fine, predomina chi è più forte demograficamente e socialmente. La civiltà europea si può salvare solo riscoprendo le sue radici e la sua identità che hanno raggiunto vertici culturali e superato problematiche sociali (si pensi al tema della laicità dello Stato) che costituiscono un risultato verso cui tutto il mondo deve porsi in un atteggiamento di ammirazione. Nello stesso tempo è sconcertante come il dibattito sul mondo musulmano in Europa non crei desiderio di conoscenza di una cultura diversa e complessa ma solo paure irrazionali: in Europa si dovrebbero moltiplicare le occasioni per approfondire le diverse sfaccettature dell’islam e della sua storia, anche a livello popolare.
Ci si continua a ripetere: “L’Italia è il Paese con la più grande eredità artistica e culturale del mondo”.
Vero, ma non ci si preoccupa del fatto che gli Italiani sono sempre più ignoranti, non leggono e di questa eredità non conoscono quasi nulla. Se un’eredità non diventa nostra non serve a nulla. In questi ultimi anni, per esempio, ci si sta rendendo conto che moltissimi turisti vengono in Italia per conoscere i luoghi e che i prodotti alimentari italiani sono strettamente legati ai luoghi. Questi luoghi devono però essere presentati e fatti conoscere da chi ci vive e, invece, spesso proprio chi ci vive non ne conosce la storia, non sente la responsabilità di guardarsi intorno e di alzare la testa dalle occupazioni ordinarie.
Come avete fatto a continuare il vostro lavoro per 38 anni?
Tutte le opere umane hanno dei cicli: si nasce, si cresce e si vivono momenti di decadenza. Per proseguire un’opera per molto tempo bisogna essere coscienti di questo, soprattutto se non si hanno a disposizione grandi sponsor e amici mecenati. È importante vivere sempre il presente e non sopravvivere: in questo l’esperienza cristiana aiuta molto. Il cristianesimo ci ha insegnato la differenza tra “fare memoria” e il semplice ricordare. L’entusiasmo dei primi anni deve essere quello con cui facciamo le cose oggi, se no è meglio lasciar perdere.
Un esempio?
Ultimamente un lungo e importante lavoro sul territorio terrazzato valtellinese ci ha portato alla pubblicazione di un importante libro di oltre 400 pagine, I luoghi del vino di Valtellina. Questo lavoro, durato per circa otto anni, ha coinvolto molte persone di diversa estrazione, uomini di cultura, produttori, sommelier e, alla fine, ha creato anche nuovi rapporti umani e nuove amicizie. Così si è rinnovato e rafforzato il gruppo dei soci della nostra Cooperativa editoriale; è stato possibile studiare una nuova grafica e abbiamo creato un sito in cui è possibile accedere a tutto il nostro archivio (126 numeri, dal 1981 ad oggi), conoscerci e acquistare i nostri prodotti editoriali.
(Mario Gargantini)