Sento per la prima volta la voce di Sergio Giraldo in una diretta web sul canale “Libertà di pensiero”. Lo intervista Antonella Zedda che di quel canale, ripetutamente chiuso da YouTube, è stato l’ideatore. Non sapevo chi fosse Sergio, se non la persona che stava dietro l’account twitter Durezza del Vivere che seguivo da sempre con grande interesse.
Era il maggio 2020. Ma non sono così sicuro. Forse era giugno. Magari aprile. Di certo eravamo ancora in pieno lockdown. Ed il costo dell’energia non era affatto un problema. L’economia era ferma e la domanda languiva.
Ciononostante, di Sergio mi colpirono queste parole: “a breve il costo dell’energia salirà. Ma tanto. Ma tanto, tanto, tanto”. Ho avuto quindi modo di conoscerlo meglio e di presentarlo a Martino Cervo, vicedirettore de La Verità.
È diventato una firma prestigiosa del quotidiano. Un po’ ne vado orgoglioso pure io. Da allora Sergio si è indiscutibilmente affermato come l’analista più preparato su un tema che di lì a poco sarebbe diventato di straordinaria attualità: l’energia.
Parlava già allora di gas, approvvigionamenti, industria europea con una competenza che non ho mai, e dico mai, trovato altrove. Aveva visto lontano, e il suo ultimo lavoro – un’analisi spietata della crisi europea – non è che una conferma.
Perché tutto ciò che riguarda l’industria europea, dunque il nostro reddito, dunque il nostro livello di vita, riguarda, in fondo, la nostra libertà. Ricordo lunghe telefonate con Sergio prima di entrare in una qualsiasi trasmissione dove si parlasse di energia. Era, anzi è il mio maestro.
L’Unione Europea, sostiene Sergio nel suo libro L’impero minore (Diarkos, 2025), è sull’orlo di una crisi epocale. Ma il suo destino non è il crollo, bensì un’eterna agonia. Scritto quando Trump non si era ancora insediato alla Casa Bianca, l’attualità di queste ore non fa che confermare la verità di quel titolo.
Mentre gli adulti nella stanza – segnatamente Stati Uniti e Russia – stanno dialogando e trattando anche sulla pelle dell’Ucraina la fine del conflitto, senza la quale questo Paese probabilmente cesserà di esistere come nazione autonoma, i ragazzi fuori – vale a dire l’Unione Europea o, per dirla alla Giraldo, l’Impero minore – si affannano a farci sapere che esistono e che vorrebbero proporre non sappiamo bene che cosa. Se un prolungamento del conflitto o la fine delle ostilità.
È irrilevante ciò che dicono o pensano i leader europei. A loro serve che tutti sappiano che questo progetto esiste. Forse perché in cuor loro i primi a sapere di essere a capo di un disabile geopolitico (per non ripetere la felice espressione di “impero minore”) sono proprio loro. Non è un’esagerazione: è un dato di fatto.
La crisi dell’UE ha radici profonde, intrecciate alla sua natura e alle scelte politiche degli ultimi quindici anni. Nel libro si parte da un concetto chiave: il “vincolo esterno imperiale”. L’espressione suona dura, ma è calzante. L’Ue si è costruita come replica funzionale di uno Stato, direbbe Alessandro Mangia.
I suoi membri (tranne alcuni come Francia e Germania, più membri degli altri) sono stati privati gradualmente della loro sovranità.
Ci hanno reso subalterni a interessi che non coincidono con i nostri. Il tutto grazie alla complicità di un establishment, quello italiano, che ha negoziato posizioni di personale prestigio in cambio del nostro scalpo.
La crisi non è semplicemente economica ma soprattutto democratica e industriale. Il declino economico non è che l’inevitabile conseguenza delle prime due crisi.
Una crisi di democrazia, perché l’establishment di Bruxelles è irresponsabile. Non è un giudizio bensì una constatazione. Lo scrutinio degli elettori non li riguarda. Sono al riparo del giudizio democratico.
E questo si lega al modello economico dell’Ue: un’economia ossessionata dalle esportazioni, che reprime la domanda interna e punta tutto sulla competitività a basso costo del lavoro. Risultato? Tensioni interne – pensate ai gilet gialli in Francia o alle proteste dei nostri agricoltori – e attriti internazionali, con partner che non ci vedono più come pari, ma come vassalli.
Poi c’è la crisi industriale, figlia di errori colossali. Talmente grossi da far fatica a pensare che non siano stati commessi in malafede. Da un lato la dipendenza energetica dalla Russia. Per anni abbiamo chiuso gli occhi, convinti che il gas di Putin fosse una garanzia.
Poi è arrivata la guerra in Ucraina, i prezzi dell’energia sono esplosi a livelli mai visti anche se con qualche mese di anticipo. E l’industria europea – già indebolita dalla delocalizzazione in Cina – ha subito un colpo mortale. Che non la ucciderà, ma la tormenterà in un’agonia senza fine.
Bollette triplicate, stabilimenti fermi, ordini persi. La deindustrializzazione marcia a passo di carica. E il Rearm Europe altro non sembra essere che il colpo di spugna con cui cancellare il Green Deal, senza che loro siano costretti a dire che avevano sbagliato tutto.
Già, il Green Deal, lanciato nel 2019 come il grande sogno ecologico dell’Europa. Peccato che si sia rivelato essere un incubo economico. La transizione energetica richiede materie prime – litio, cobalto, terre rare – che l’Ue non ha.
Abbiamo buttato alle ortiche a un sistema energetico funzionante per sostituirlo con uno inefficiente che forse anzi non è neppure un sistema energetico.
Pensate alle auto: passare dall’endotermico all’elettrico costa miliardi, ma l’energia che produciamo non basta, e le batterie dipendono dalla Cina. Gli investimenti? Bloccati dalle regole Ue sui bilanci, che vietano deficit e immobilizzano la spesa pubblica.
Ma ora ci dicono che il Patto di stabilità si può sospendere. In una parola: il Green Deal era recessivo. E lo scrivevamo da anni. E il paradosso è che l’Europa, responsabile di una frazione delle emissioni globali, si illude di salvare il pianeta mentre Usa e Cina vanno avanti senza scrupoli.
L’“impero minore” vorrebbe giocare da potenza mondiale senza essere uno Stato nazionale. Altro che impero: siamo un satellite, molto più ingombrante rispetto a quelli prodotti da Musk ma molto meno performanti. Il decoupling dalla Cina, la crisi energetica, la perdita di competitività ci stanno spingendo verso il baratro. Un baratro senza fine per un’agonia che non finisce mai.
Eppure, una via d’uscita c’è. Non passa da Bruxelles, ma dai nostri confini. Serve un ritorno alla politica nazionale, alla democrazia vera, all’autodeterminazione. Dobbiamo riscoprire chi siamo, smettere di inseguire sogni imperiali che non ci appartengono e ricostruire da lì.
L’industria europea non si salva con i proclami verdi o le sanzioni alla Russia: si salva con pragmatismo, investimenti pubblici, protezione dei nostri interessi. L’energia è il sangue dell’economia. Se la togli, il corpo muore.
Aveva ragione allora Sergio, e ce l’ha oggi. Questo libro è un allarme, ma anche una guida. Sta a noi decidere se ascoltarlo o continuare a farci trascinare verso il declino. Io, per parte mia, ho scelto da tempo da che parte stare.
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