A cinquant’anni dalla sua morte, Hannah Arendt (1906-1975) appare sempre più come una delle grandi figure intellettuali dello scorso secolo. Al pubblico non specialistico il suo nome richiama soprattutto un’idea, quella della banalità del male, elaborata da Arendt dopo aver assistito al processo al criminale nazista Adolf Eichmann, svoltosi a Gerusalemme nel 1961. Si tratta sicuramente della tesi più controversa e intrigante elaborata da una pensatrice i cui scritti non mancarono quasi mai di sollevare discussioni; segno della loro originalità ed estraneità rispetto alle tendenze culturali prevalenti.
L’idea della banalità del male risultò e risulta tutt’ora sorprendente se consideriamo che venne proposta da colei che era considerata uno dei massimi esperti del totalitarismo, categoria al cui interno Arendt collocava tanto il regime nazista tedesco quanto quello stalinista sovietico.
A partire dalla prima edizione de Le origini del totalitarismo (1951) la studiosa tedesca di origine ebraica si riferisce al terrore totalitario definendolo “male radicale” e individuando la sua manifestazione più eclatante nei campi di sterminio.
La radicale iniquità di tale terrore, capace di fare milioni di morti, consiste nel tentativo di eliminare ciò che è peculiare dell’essere umano, vale a dire la sua libertà intesa come capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo e imprevedibile – una capacità che Arendt (sulle orme di sant’Agostino) attribuisce alla natura umana stessa in quanto caratterizzata dalla natalità.
I campi costituiscono i laboratori sociali dove si sperimenta la possibilità di ridurre l’uomo a un mero essere vivente determinato dalle sue reazioni istintuali, un essere pienamente fungibile che ha un numero come proprio nome.
Nel tribunale di Gerusalemme Arendt si trovò davanti un uomo che si esprimeva esclusivamente attraverso un gergo burocratico, spesso in difficoltà a comprendere le domande che gli venivano rivolte e apparentemente incapace di considerare le cose da altri punti di vista, quale ad esempio quello delle vittime.
“Restai colpita – dice Arendt nel volume postumo La vita della mente – dall’evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause e motivazioni”. Con “banalità del male” Arendt intende proprio esprimere una peculiare figura di male umano, quella in cui appare esserci un’enorme distanza tra l’intenzione e i terribili effetti dell’azione, in cui cioè le prime non sembrano minimamente riuscire a spiegare i secondi.
Negli anni che separano il Processo Eichmann dalla sua morte, Arendt va a fondo di tali intuizioni guidata da un interrogativo decisivo: che cosa ha permesso ai cosiddetti “non allineati” di rimanere immuni dalla banalità del male? La posta in gioco è rilevante: comprendere il male a livello morale e antropologico evitando il riferimento a una presunta sua “diabolicità”, il che produrrebbe un’ulteriore de-responsabilizzazione degli esseri umani.
Detto in termini assai sintetici, Arendt individua la precondizione fondamentale della resistenza al male nella capacità di pensare. Si tratta di una tesi solo apparentemente riduttiva e paradossale, in quanto Arendt si riferisce a qualcosa che, pur essendo specificamente umano come il pensare, non è scontato che sia all’opera in tutti gli uomini.
Il pensare implica una predisposizione a vivere con se stessi, a ricordare, meditare e riflettere. Esso richiede una disponibilità a lasciarsi interrogare dagli avvenimenti per cercarne il senso e per giudicarli. Il pensiero è soprattutto pensare dal punto di vista altrui, in quanto solo in tal modo la realtà è conoscibile nei suoi vari aspetti, e per far ciò è necessario sviluppare una facoltà spesso negletta, quella dell’immaginazione.
Non è casuale che Arendt individui nell’ideologia il fattore più peculiare del totalitarismo. L’ideologia infatti stabilisce teoricamente il senso delle cose indipendentemente dal rapporto diretto con la realtà e dallo scambio di prospettive che avviene nel mondo comune. Il male totalitario è reso possibile dalla diffusione di un tipo umano incapace di sfuggire al punto di vista che l’ideologia ufficiale impone attraverso la propaganda e il terrore.
In definitiva il male può essere banale e non radicale nel senso che non ha radici nell’animo umano, in quanto esso presuppone proprio la mancanza di profondità del pensiero, il cui esito è l’atrofia del giudizio e il conformismo.
Con la nozione di banalità del male Arendt non intende quindi sminuire gli effetti del male, che anzi sono “estremi”, ma solo individuare i presupposti della diffusione di un pensiero superficiale che genera una relazione distorta col reale e quindi un’atrofia del giudizio e un comportamento irresponsabile. Presupposti che possono ripresentarsi anche dopo la fine dei regimi totalitari date certe condizioni sociali e culturali.
__
Questa sera l’autore sarà ospite del Centro Culturale di Milano, dove parlerà di Hannah Arendt insieme a Laura Boella (Università di Milano), Chantal Delsol (Università di Paris-Est), Costantino Esposito (Università di Bari). Info su centroculturaledimilano.it
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.