“La storia dei 47 ronin” di John Allyn (1970), ora tradotto, è una epopea del Giappone dei samurai che ha travalica i confini, tra storia e finzione
Dalla fucina di idee e di scelte sempre originali delle edizioni Biblioteka è uscito un volume imperdibile: La storia dei 47 ronin, scritto da John Allyn nel 1970 e ora tradotto, con due appendici e note, da Aldo Setaioli.
La vicenda è celeberrima, e affonda le sue radici nel Giappone feudale. Ancora oggi, una delle attrattive più visitate di Tokyo è il tempio Sengakuji, quasi nel centro della metropoli, ma che un tempo sorgeva abbastanza isolato ai margini di Edo, antico nome della città.
Nel cimitero adiacente al tempio attira l’attenzione un gruppo di lapidi tra loro vicine racchiuse in un recinto, presso il quale si trova una tomba più monumentale. Vi riposano le spoglie dei quarantasette ronin, letteralmente “uomini onda”, ovvero samurai senza padrone, che il 14 dicembre 1703 vendicarono la morte del loro signore, Asano Nagonori, feudatario (daimyo) di Ako, uccidendo colui che ritenevano ne avesse la colpa.
Furono per questo condannati a morte, ma ebbero il privilegio di togliersi onorevolmente la vita col suicidio rituale del seppuku. La tomba più grande vicina è quella del loro signore. Il luogo è uno dei più venerati del Giappone, e ancora oggi, il 14 dicembre, l’anniversario della vendetta, vi viene celebrata una solenne cerimonia.
L’impresa dei quarantasette viene considerata come il più fulgido esempio del bushido, l’etica dei samurai, coloro che, dopo un lunghissimo addestramento, fisico, ma anche morale e spirituale, avevano il diritto di portare le armi, in particolare le due spade che costituivano l’insegna stessa di questa casta guerriera. Il bushido (“la via del guerriero”) prescrive onestà, coraggio, sincerità, onore, cortesia, dovere e lealtà – virtù quest’ultima di cui dettero singolare prova i quarantasette.
L’episodio si verificò agl’inizi del XVIII secolo, e ben presto venne celebrato nella letteratura e nel teatro, fino a divenire un’autentica gloria nazionale. L’impresa venne descritta dal dotto confuciano Muro Kyuso (1658-1734), nello scritto Testimonianze sugli uomini retti del feudo di Ako.
Presto la vendetta dei quarantasette dette luogo a un vero e proprio genere teatrale, che prese il nome di Chushingura, dall’opera più popolare sull’argomento, il Kanadehon Chushingura (“Il tesoro dei leali seguaci”), alla cui stesura contribuirono diversi autori, rappresentato per la prima volta come dramma bunraku (cioè, per il teatro delle marionette) nel 1748 e adattato poco dopo come kabuki, con cambiamenti sui nomi dei personaggi e dei luoghi.
Seguirono, in Giappone, innumerevoli adattamenti teatrali, narrativi, artistici e cinematografici, che trasformarono la vicenda secondo le concezioni e le tendenze del momento, anche in Occidente: va citato il romanzo di George Soulié Morant, Les 47 rônins. Le trésor des loyaux samourais (prima edizione 1927), tradotto anche in italiano, e perfino una graphic novel di Sean Michael Wilson, The 47 Ronin, illustrato come un vero e proprio manga da Akiko Shimojima (2013), anch’esso reperibile in italiano; va anche citato un film (non riuscitissimo), 47 Ronin (2013), diretto da Carl Rinsch e con Keanu Reeves come protagonista.
La prima breve menzione occidentale dell’avvenimento si trova, alla fine del XVIII secolo, nelle Memorie segrete degli shogun di Isaac Titsingh, funzionario della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, che dimorò in Giappone sotto la dinastia dei Tokugawa, ma il primo vero resoconto fu quello di Algernon B. Mitford, che visse in Giappone al tempo della restaurazione imperiale del 1868 e riferì l’episodio nel primo capitolo dei suoi Tales of Old Japan, London 1871: questa è la prima delle due appendici in calce al libro.
Sebbene riporti alcuni documenti dichiarati autentici, anche tale racconto è, però, una ricostruzione in buona parte fantastica, benché forse più vicina al vero delle opere teatrali e narrative precedenti e seguenti
Una scrupolosa ricostruzione storica della vicenda si potrà invece reperire nello studio di John A. Tucker, The Forty-seven Ronin. The Vendetta in History (Cambridge 2018): invece, il volume edito da Bibliotheka e tradotto da Setaioli, che lo rende per la prima volta disponibile in italiano, è quello di John Allyn (1970). L’autore, scrittore e regista statunitense, ha frequentato il programma di formazione dell’esercito USA all’Università di Stanford nel 1944, specializzandosi in lingua giapponese e lavorando, nei primi quattro anni dell’occupazione americana in Giappone, a Osaka e Tokyo.
Il libro, come avverte Allyn stesso, è una ricostruzione romanzata della vicenda dei quarantasette ronin, nella quale la vicenda storica viene collocata in una cornice di fantasia; e questa è in molti modi fortemente influenzata dall’ottica occidentale (e moderna), che traspare anche dal vocabolario usato, il cui tono Setaioli ha cercato di mantenere nella traduzione. Può essere un difetto, ma può facilitare la comprensione al lettore occidentale, una volta chiarito l’intento e il carattere del libro.
Allyn, dunque, cerca di facilitare al massimo il lettore occidentale: lo fa, per esempio, adattando il riferimento a date e stagioni in base al calendario gregoriano, che però fu introdotto in Giappone solo nel 1873. Usa solo il nome di famiglia dei personaggi, forse per il motivo già indicato da Mitford: la lunghezza dei nomi giapponesi avrebbe disorientato il lettore occidentale.
Il protagonista, capo delle milizie del castello di Ako, viene chiamato Oishi, non Oishi Yoshio; il signore di Ako soltanto Asano, non Asano Naganori; l’ufficiale corrotto che ne provocò la morte è indicato come Kira, non Kira Yoshinaka. Le rare volte che Allyn fa riferimento anche al nome personale lo pone prima del nome di famiglia, secondo l’uso occidentale, mentre in Giappone è quest’ultimo che precede.
L’eroe del romanzo è naturalmente Oishi, il capo della milizia di Asano, che è l’anima del progetto di vendicare il defunto signore, come richiesto dal codice del bushido. Tutti i nomi dei suoi compagni corrispondono però a personaggi reali che parteciparono all’impresa.
Per ingannare le spie di Kira, che temeva la vendetta dei seguaci di Asano, Oishi si recò a Kyoto (il cui antico nome era in realtà Heian), divorziò dalla moglie, si dette a una vita di bagordi, e si portò in casa una geisha riscattata da una delle case di piacere di Kyoto, per far credere a Kira di avere rinunciato a vendicare il suo signore, come esigeva il bushido.
Una delle case da tè più frequentate da Oishi a Kyoto esiste tuttora. È divenuta un locale altamente esclusivo, che oggi si chiama Ichiriki chaya, nome che gli viene dato nel Kanadehon Chushingura. Non si trova sulle rive del fiume Kamo, come la casa da tè chiamata “Gru in volo” nel romanzo. Lungo il fiume, tuttavia, si trovano ancora diversi locali del genere.
Il romanzo introduce molti altri tratti destinati a rendere più comprensibile (e accettabile) la vicenda per la sensibilità occidentale: per esempio l’offesa più grave che Kira fa ad Asano diventa un’allusione salace alla moglie di lui. Il carattere di Oishi viene edulcorato per quanto riguarda il rapporto con la moglie e quello con la geisha.
Non pochi altri particolari vengono cambiati; nel romanzo, per esempio, Kira è un abile spadaccino, non un vile che rifiuta la possibilità di morire onorevolmente compiendo seppuku. Forse è questo il dettaglio che maggiormente allontana il protagonista del romanzo dall’etica reale del bushido, che richiedeva cortesia anche coi nemici – come, agli occhi di un samurai, è offrirgli la possibilità di morire onorevolmente suicidandosi.
Mitford, che scriveva poco dopo la restaurazione imperiale, impiega i titoli coi quali i personaggi venivano ufficialmente indicati in luogo dei loro nomi personali, e che vengono spiegati nelle note al testo. Forse credeva che si trattasse di veri e propri nomi; una sostituzione che del resto si riscontra talvolta anche oggi in Occidente.
Mitford fu la principale fonte di Borges per il racconto L’insolente maestro di cerimonie Kotsuké no Suké, tratto dalla sua Historia universal de la infamia, che costituisce la seconda appendice, e che completa il volume, rendendolo un libro di assoluto pregio, che non può mancare nella biblioteca di ogni appassionato del Giappone, dell’Oriente, ma anche della letteratura cavalleresca di ogni tempo.
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