LETTURE/ “I miei stupidi intenti”: Dio non basta, serve che ci ami

- Gianfranco Lauretano

"I miei stupidi intenti" di Bernardo Zannoni, scrittore esordiente, nonostante la sua freschezza e novità ha vinto il Campiello di quest'anno. Riabilitando il premio

bernardozannoni campiello2022 1 youtube1280 640x300 Bernardo Zannoni, scrittore, vincitore del Premio Campiello 2022 (foto da Youtube)

Come scegliere i romanzi da leggere? La filiera informativa tradizionale, imperniata sulle terze pagine dei quotidiani e qualche passaggio televisivo, è da tempo in crisi e screditata. Esistono i siti specializzati della rete, che però sono un marasma in cui qualità e mediocrità spesso non si distinguono; nascono anche in questo campo i “bookinfluencer”, e anche in questo caso non si capisce come e perché ci si dovrebbe fidare: a ognuno le sue guide. C’erano una volta i grandi premi letterari, e ci sono ancora: ma anche la loro autorevolezza è in crollo verticale, dopo aver appreso che spesso chi si impone lo fa in conseguenza di manovre dietro le quinte e accordi tra le major editoriali. Infatti quanta delusione abbiamo provato a leggere i vincitori degli ultimi anni dello Strega, del Campiello o del Bancarella, solo per citare i più noti.

Sorpresa ancor maggiore, dunque, che quest’anno la sessantesima edizione del Premio Campiello sia stata vinta da un romanzo di grande qualità. Si aggiunga che l’autore è un autentico outsider, uno scrittore di venticinque anni, sconosciuto, al suo primo libro in assoluto, e che la casa editrice è la palermitana Sellerio, certo non una corazzata dei libri, anche se ben conosciuta e stimata come realtà in cui si scoprono talenti (valga per tutti Camilleri): si tratta del romanzo I miei stupidi intenti dello scrittore sarzanese Bernardo Zannoni.

Devo la scoperta di questo racconto alla mia partecipazione a un gruppo di lettori di romanzi dove ci si scambiano opinioni e consigli di lettura. Come dice Filippo La Porta, uno dei maggiori critici di narrativa attuali, probabilmente la rinascita del gusto letterario sta ripartendo proprio da questi luoghi non istituzionali, composti da persone libere di leggere, associarsi e dialogare intorno al bene comune della letteratura, in barba alla débâcle degli altri luoghi, quelli istituzionali come università, scuola o organi di informazione e social, che arrancano e, più che altro, generano confusione.

I miei stupidi intenti racconta la vita di una faina: inizia con la morte del padre ladro, poi la cacciata di casa da parte della madre; Archy, il protagonista narrante, viene in seguito adottato da una volpe usuraia, che gli insegna a leggere e gli cambia la vita. I personaggi sono animali ma hanno caratteristiche umane: abitano in tane che sembrano case, dormono in un letto, preparano il cibo in cucina, usano oggetti e attrezzi comuni, come stoviglie o ninnoli. Trafficano, commerciano, discutono, si capiscono tra specie diverse. Si coglie subito il proposito dell’opera: attraverso la natura, soprattutto il mondo animale, capire la natura dell’uomo. La genialità di Zannoni sta nel non fare dell’elemento naturale mitologia di un ordine armonico, di non aderire insomma all’ideologia della natura. La condizione costante dei personaggi e delle situazioni in cui si trovano è la crudeltà, l’indifferenza all’altro, la violenza, la relazione di potere che soggioga l’altro al proprio istinto, spesso famelico. Nel racconto di Zannoni la madre uccide i figli, anche schiacciandoli nel sonno e lasciando il corpo a seccare tra le lenzuola, le bestie più forti sgozzano improvvisamente gli interlocutori con cui avevano parlato un minuto prima, si rapiscono i cuccioli per farne schiavi in barba allo strazio delle madri. Ci si trova sempre a un passo dalla morte, che può essere causata da un imprevisto scatto rabbioso o dall’insofferenza della presenza ostacolante dell’altro.

È come se l’autore avesse voluto fissare il momento di passaggio dall’animale all’uomo, dall’australopiteco all’homo sapiens. Cosa è accaduto, cosa ha permesso il balzo dalla ferinità alla civiltà?
Snodo centrale del racconto è l’adozione della faina da parte di Solomon, la vecchia volpe usuraia. È lui che insegnerà ad Archy a leggere, e lo farà sulla Bibbia, il libro di Dio, come gli è accaduto a sua volta da giovane. Per questo la volpe si crede un uomo e, dice, la caratteristica degli uomini è capire ed essere gli animali salvati da Dio. E per questo insegnerà ad Archy a leggere, perché diventi anche lui un uomo.

Lo spazio in cui tutto ciò avviene, comunque, non si chiarisce mai del tutto. Leggere non aiuta a comprendere completamente le grandi questioni, come la morte, l’amore, la propria storia. Per essere uomo Solomon deve nascondere il suo passato terribile e violento e neppure la consapevolezza della salvezza gli eviterà il terrore della morte, come ci viene narrato nello splendido capitolo sulla sua agonia.

Il fatto è che il Dio del quale la volpe cita frasi è solo quello dell’Antico Testamento, un Dio che salva ma è allo stesso tempo crudele e violento, che crea la luce e fa affogare gli uomini di un intero esercito, colpevoli e innocenti, nel Mar Rosso, che è il “padre del mondo” ma tace di fronte al figlio morente. Anche Dio vive nel passaggio dall’animale all’uomo: è quello che accompagna la bestia a rendersi civile e sembra parlare la stessa lingua, in cui barlumi di coscienza venienti e crudeltà permanente ancora si mischiano, persino in Lui. È un dio totalmente precristiano: nel romanzo la pietà non esiste, l’amore è una cosa da sciocchi (dice Solomon), un gesto assurdo dare la vita per l’altro. Solo per una frazione di tempo il cristianesimo sembra affacciarsi nel personaggio del medico-castoro che viene chiamato al capezzale della volpe: “Parlò con un muso sincero, pieno di compassione. Rimasi stupito, senza sapere cosa rispondere, siccome la pietà è una cosa rarissima in un animale” afferma la faina. E più avanti: “Mi fu chiaro che per essere chiamati dottore bisogna sentire questa necessità, il prendersi cura degli altri”. Per il resto della storia non esiste nulla del genere, è pre-cristiana, o forse post-cristiana, data l’età dell’autore.

Bernardo Zannoni è uno scrittore discreto, che non impone risposte pre-confezionate. Afferma in un’intervista che il romanzo si è fatto da solo, incalzando un personaggio che nella prima parte del libro prendeva misteriosamente forma da sé: è bastato seguirlo. Riconosciamo in questo il vero scrittore, che non lavora avendo già tutto chiaro il progetto, ma apprende egli stesso dalla sua storia, così come si squaderna quasi da sola mentre la stende. Lo stile e la lingua sono eccellenti: essenziali, ricchi, battenti. Niente parole in più, niente noia, mai banalità. Certe immagini sorprendono, la soluzione di molte scene è efficace e sempre coerente con tutto il resto.

Ha detto Hannah Arendt: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani”. Così come Zannoni è stato aperto alla novità della sua scrittura mentre si faceva, conforta sapere che un luogo istituzionale come il Campiello sia stato aperto alla novità inaspettata del suo romanzo. Dire che I miei stupidi intenti eviterà la rovina della narrativa è certamente esagerato, ma possiamo tranquillamente affermare che la presenza di un autore ventenne già capace di tale qualità è una speranza per tutta la nostra letteratura.

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