Se l’idea di leggere un saggio di sociologia americana vi procura uno sbadiglio come riflesso condizionato, ma vorreste comunque capire meglio come vanno le cose oltre Atlantico nell’era Trump, il libro di James David Vance, Hillbilly Elegy, potrebbe fare al caso vostro.
Edito nel 2016, Elegia Americana (questo il titolo proposto da Garzanti) è il racconto autobiografico di un testimone diretto delle variegate vicende umane e sociali dei proletari bianchi della Rust Belt, “la cintura della ruggine”, ovvero quel che resta della Factory Belt, la gloriosa “cintura industriale”, spina dorsale dell’economia americana fino agli anni 80 del secolo scorso.
Nell’ultimo decennio J.D. Vance è passato da “signor nessuno” a esponente di spicco dei democratici, poi a vice di Trump e (secondo alcuni) possibile candidato alle prossime presidenziali per i Repubblicani. Nell’ autobiografia, scritta appena superati i trent’anni, Vance ricapitola la sua vicenda di potenziale sconfitto dalle circostanze della vita, con tanto di alibi statistico a supporto. Lo fa chiamando a raccolta e ordinando tutte le relazioni positive, grazie alle quali ha costruito il suo personale ponte verso il cambiamento.
“Ho un rapporto che definirei eufemisticamente complesso con i miei genitori, uno dei quali a mia memoria ha sempre avuto problemi di droga”. Da queste sole due righe della prima pagina si può indovinare molto di quanto si troverà in seguito nel libro. Senza che serva anticipare altro dei numerosi colpi di scena della narrazione, è sufficiente dipanare queste semplici parole per dare l’idea del ginepraio dal quale J.D. può andare ben fiero di essere uscito – per quanto possibile – indenne. Durante i suoi primi anni Vance cambia due volte il nome e due volte il cognome, eventi di per sé traumatici, se non fosse che gli altri di contorno potrebbero esserlo maggiormente. “Mio padre, Don Bowman, era il secondo marito della mamma. Si erano sposati nel 1983 e si erano separati più o meno quando iniziavo a camminare. La mamma si è risposata un paio d’anni dopo il divorzio. Papà mi ha dato in adozione quando avevo sei anni”. “Quando Bob è diventato legalmente mio padre, la mamma mi ha cambiano nome, da James Donald Bowman in James David Hamel. Fino ad allora, il primo nome di mio padre era stato il mio secondo nome, e la mamma ha approfittato dell’adozione per cancellare ogni ricordo della sua esistenza. Ha tenuto la D per conservare quello che era ormai diventato un soprannome universale: J.D. Mi ha detto che da allora avrei preso il nome dello zio David, il fratello della nonna che si faceva le canne. Mi sembrava un po’ troppo anche quando avevo sei anni”.
Per la cronaca la madre di Vance ha avuto più mariti e fidanzati della Samaritana di cui parla il Vangelo di Giovanni, e – di fatto – J.D., dopo aver rischiato (per davvero) l’affidamento ai servizi sociali, è stato cresciuto dai nonni materni, due autentici hillbilly (ovvero due autentici buzzurri montanari, come spiegano i traduttori) a loro volta violenti, rissosi, separati e decisamente poco urbani.
Quando Vance si decise a scrivere l’autobiografia, su amorevole pressione di Amy Chua, sua professoressa a Yale, “una delle persone particolarmente caritevoli” a cui deve di non aver dilapidato i suoi talenti, entrambi i nonni erano morti, sua madre continuava ad essere vittima della dipendenza da oppiacei, la Rust Belt proseguiva nel suo inesorabile declino. Tuttavia, il sentimento prevalente era quello di avercela fatta ad uscire da un lunghissimo tunnel, il cui inizio datava ancor prima della sua nascita. Come sia stato possibile è la domanda che corre lungo tutto il libro ed è il tema che l’autore cerca di analizzare in dettaglio nei capitoli che conducono alla conclusione. Qui Vance scopre che una delle leve più importanti per concretizzare l’ascensore sociale sia l’accesso all’informazione, sorpreso come lo è stato nel corso degli studi dalla scoperta che Harvard o Stanford siamo tutt’altro che inaccessibili economicamente per uno studente meritevole, con una famiglia a basso reddito. L’altra leva è il “capitale sociale”. Un concetto accademico che insiste sul valore reale – fino a tradurlo in valore economico – delle relazioni personali e istituzionali e in generale sull’apertura a ciò che è nuovo e diverso. Un concetto che fa a pugni con il valore dell’isolazionismo fatto proprio e idealizzato dalle comunità appalachiane del Kentucky, da cui traggono linfa i valori tradizionali dei nonni e a cui Vance si è affidato per buona parte della sua vita. Riuscire a rompere – non senza fatica – con tali valori è la condizione sine qua non per stabilizzare la conquista del suo cambiamento. Non c’è ascensore sociale senza rottura col proprio passato e senza conflitto con la propria (presunta) identità precedente.
Dimenticavo, dal libro è stato tratto il film Elegia Americana, prodotto da Netflix. Ma non fatevi tentare dalle scorciatoie: il libro ha molti più colori e una leggerezza che al film – fatta salva la bravissima Glenn Closen e la buona volontà del regista Ron Howard – mancano.
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