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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ La poesia di Marelli, il mondo è un dono e noi siamo in “debito”

  • Letture e Recensioni
  • Cultura

LETTURE/ La poesia di Marelli, il mondo è un dono e noi siamo in “debito”

Corrado Bagnoli
Pubblicato 17 Giugno 2025
(Pixabay)

(Pixabay)

Piero Marelli, nella sua raccolta poetica I ann intrégh (Gli anni interi) manifesta tutta la pietas, la gratitudine verso la realtà che tocca al poeta

Bisogna essere pieni di gratitudine nei confronti di Piero Marelli, poeta ultraottantenne che ci insegna che la poesia o è poesia dell’inizio, o non è poesia. Di quale inizio sto parlando? I ann intrégh (Gli anni interi) è l’ultimo libro di Marelli, edito con la solita, magistrale cura da Book Editore (2024).


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Si tratta di una raccolta composta da quattro capitoli, ciascuno dei quali suddiviso in tre movimenti. Sono le quattro stagioni che Marelli chiama a modo suo, nella sua lingua, I giurnàt del sambüs fiurî, la primavera; I giurnàt del furment marü, l’estate; I giurnàt di föi che bôrlen; l’autunno; I giurnàt de la prima néf, l’inverno. Chiude poi il volume la Cantàda per ul Pizz di Tri Sciûri, un poemetto dedicato al Pizzo dei Tre Signori e ai luoghi che lo circondano.


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I testi sono scritti nel dialetto brianzolo con cui Marelli si è sempre espresso e sono accompagnate, alla fine del volume, dalle traduzioni in italiano che, come Marelli stesso rivendica sempre, non sono traduzioni di servizio, volte cioè a far comprendere i testi a chi quel dialetto non lo conosce, ma partecipano dello stesso fervore creativo dell’originale brianzolo.

In queste mie righe, però, non voglio sviluppare riflessioni che riguardano il valore della lingua dialettale in poesia, o le ragioni che oggi ne fanno una forma tra le più alte dell’esperienza poetica contemporanea. Semplicemente perché quello che in questo libro viene allo scoperto, dialetto o italiano che sia, è la stessa origine, lo stesso dinamismo da cui nasce la poesia in quanto tale.


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Così dice Marelli: “Gh’è ‘n débit sbirul de pagà/ e ‘stô débit l’è ul regôrd e j regôrd/ ‘na quaj völta disen busìj: ma quischì înn/ la cuntentèza de cüntala sü” (C’è un debito disorientato da pagare/ e questo debito è il ricordo e i ricordi/ qualche volta ingannano: ma queste sono/ le gioie del racconto). All’inizio c’è il riconoscimento di essere in debito. Nei confronti del mondo, del suo esserci e del suo esserci donato.

E dal riconoscimento nasce la riconoscenza: sentirsi in debito indica anche il compito al quale il poeta è chiamato. Deve raccontare quello che appare e scompare, quello che è, e quello che è stato. Ecco come lo dice Marelli: “…méti i mé urècc/ ‘l semper parlà del vent, i mè öcc a l’umbria de la vit/ che le scund ‘n tuchèl de quel che le ries a trainsèma,/ aj manit di föj che l’utünn catarasü/ per i sö culur, e lì l’è stada metüda ‘na prumèsa…” (affido le mie orecchie / al sempre dire del vento, i miei occhi all’ombra della vite/che nasconde un poco quello che riesce a fare,/ alle piccole mani delle foglie che l’autunno raccoglierà/ per i loro colori, e lì è stata fatta una promessa…).

Come si vede, non si tratta, per il poeta e per l’uomo, solo di cantare e raccontare l’esistente, ma anche di entrare nelle sue pieghe, di inseguire la promessa misteriosa che in esso non sfolgora nella piena luce, ma giace come nascosta: “Te dumandèt anca quajcòss d’ôlter ‘l sügütà del mund/ ‘n ôlter vif, n’ ôltra lengua che le te sarà minga/ regalàda, ul per gnient de ‘na pianta de fich ‘n mezz ‘l curtil/ che nanca l’éra tua e ul tò mund/ dés méter de busch per trainsèma aventür de malament” (Chiedevi anche altro al continuo del mondo,/ un’altra vita, un’altra lingua ma che non ti sarà/ regalata, l’eredità di un albero di fichi in un cortile/ che nemmeno ti apparteneva e la tua nazione,/ dieci metri di bosco per abitare avventure di pirati).

Riconosciuto il proprio debito, il poeta diventa riconoscenza nella parola: questo è l’inizio di un cammino pieno di interrogativi che si levano nella continua perlustrazione del mondo alla quale Marelli si concede. Immerso nel molteplice della natura, egli si fa anche testimone, nel suo dire evocativo, della potenza quasi mitologica delle cose passate. Senza cadere nel tranello della nostalgia: il compito della poesia è quello di tenere duro, di essere presente anche là dove l’oblio incombe.

E se allora si indugia nel ricordo, non è per una sentimentale fuga da ciò che oggi duramente viene a galla nella realtà, ma piuttosto per quella pietas in cui si manifesta tutta la terribile e innocua potenza e debolezza della poesia: il nostro compito, dice Marelli, è dare voce al sambuco che fiorisce, al frumento maturo, alle foglie che cadono, alla prima neve. A quel mondo che – “almen de sira, quand, ciavasü tütt i pôrt, te se ritrövet in sacòcia” – devi mettere sulla pagina bianca che ti aspetta e che non si lascia scrivere mai in maniera definitiva, costringendoti ogni giorno a ricominciare.

Ecco la testimonianza più grande di un poeta come Marelli: dopo una vita lunga e un quasi febbrile, instancabile lavoro poetico, rimettersi ancora in gioco. Ricominciare sentendosi ancora in debito, sentendosi chiamato a una gratitudine che si scioglie in parole piene di una commozione, di una pietas nei confronti di un mondo continuamente interrogato e ripetutamente sfuggente, dal quale non ci si vorrebbe separare.

Il desiderio del poeta, tutto espresso con le cose, va ben oltre esse, come Marelli confessa nella poesia della Chiesetta Madonna della neve: “I stej, j em cüntà, dudes, éren/ la tua cutunàda, i sass di prȃ/ te speciaven e ‘na quaj völta te sét vegnüda/ per parlà, cume ‘l ssolit, del temp/ e del bisogn de stà chì, di ropp bum/ che g’avévum ‘n del zain” (Le stelle, le abbiamo contate, dodici, erano/ la tua permanente, i sassi dei prati/ ti aspettavano e qualche volta sei venuta/ per parlare, come al solito, del tempo/ e del nostro desiderio di restare, delle cose buone/ che avevamo nello zaino).

Cosa può fare un povero poeta? Cosa può fare un vecchio, giovanissimo uomo? Marelli ce lo dice così: “…tütt ul regal ch’èlv’è stȃ cuncès/ duarà ves dà indré cunrt ‘n sbanf püsé fôrt,/ sücür che quajghidün ‘l vurarà gratàvel: tücc/ nüm, bagàj de butéga de quel minga cumprés, dumȃ Lü/ bum de rirüzzagh ‘n de la lüs/ da due sem vegnü” (…ogni dono che vi è stato dato/ dovrà essere restituito con un più grande batticuore,/ sicuri che qualcuno tenterà di rubarvelo; tutti/ noi, apprendisti dell’incomprensione, solo Lui/ capace di ricacciarci nella luce/ da dove siamo venuti).

Che bello, insieme a lui, dentro la sua poesia, nel nostro ordinario quotidiano interpellare il mondo, saperci bagàj de butéga. Apprendisti, dice l’italiano (forse, anche da questi piccoli passaggi, si può capire perché il dialetto ha ancora qualcosa da insegnare. Ma è un capitolo che, come abbiamo già detto, non possiamo aprire, su cui magari torneremo).

Quello che conta è la poesia. Che in Marelli ci ricorda il nostro debito, che ci racconta come dobbiamo dare indietro ciò che abbiamo ricevuto, con quale sbanf – con quale batticuore – obbedire al desiderio di una vita sempre al suo inizio. Con la speranza, forse la pretesa da bagaj de butéga, di capire chi siamo, dove andiamo, a quale luce e grazie a Chi torneremo.

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