Dobbiamo delle scuse a Torquato Tasso. L’abbiamo snobbato a scuola, tutti presi dall’Ariosto, abbiamo rinchiuso nella cassaforte dell’oblio questo colosso della cultura italiana ed europea e pure i suoi resti mortali stanno celati a qualsiasi pubblico omaggio. Gran disdoro a tutti noi! Già l’Alfieri se ne lamentava: “Qui giaccion l’ossa, in sì negletta tomba?”, poi il suo sonetto prendeva una piega decisamente anticlericale sfociando nell’auspicio che dal Vaticano fossero cacciati tutti i vescovi per seppellirvi solamente Tasso, colui che, pochi anni dopo la gran vittoria di Lepanto, aveva cantato “l’armi pietose e il capitano che il gran sepolcro liberò di Cristo”.
Non vogliamo far torto, anzi, a Roberta Perfetti e Silvia Telmon, curatrici della mostra L’albero del poeta. La Quercia del Tasso al Gianicolo al Museo di Roma in Trastevere, ma la figura dell’autore della Gerusalemme liberata dilaga ben oltre il perimetro dell’esposizione, che racconta e documenta – attraverso quadri, stampe, incisioni, bozzetti – lo straordinario potere d’attrazione esercitato per quattro secoli dal luogo della morte del poeta, simboleggiato da una quercia a mezza costa del colle Gianicolo, sulla cui sommità troneggia Garibaldi a cavallo, a memoria di aspre battaglie lì combattute ai tempi della Repubblica romana.
Proprio l’eroe dei due mondi, che aveva disposto la requisizione di tutte le campane dell’area per fonderle a cannoni per la pugna, salvò la campana del monastero di Sant’Onofrio appena saputo che aveva accompagnato l’agonia e la morte del Tasso (a soli 51 anni) la cui fama, nell’Italia del passato, era talmente diffusa e onorata che i gondolieri di Venezia, da una riva all’altra dei canali, recitavano e si rilanciavano a memoria intere ottave della Liberata (all’uopo, nel 1693, Tomaso Mondini l’aveva tradotta in lingua veneziana in El Goffredo del Tasso cantà alla barcarola).
Ma è un’autentica processione (reale e ideale) di personaggi illustri quella che lungo i secoli si è dipanata al letto funebre di Tasso a Sant’Onofrio, oggi museo praticamente inaccessibile. Giacomo Leopardi scrive: “…fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato a Roma”.
Nella canzone Ad Angelo Mai il recanatese s’era immedesimato nelle avversità del collega partenopeo, leopardizzandolo un po’: “Oh misero Torquato! il dolce canto non valse a consolarti o a sciôrre il gelo onde l’alma t’avean, ch’era sì calda, cinta l’odio e l’immondo livor privato e de’ tiranni. Amore, amor, di nostra vita ultimo inganno, t’abbandonava”.
Il buon Giacomo faceva eco all’altrettanto sconsolato Ugo Foscolo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis: “Oh! io mi risovvengo col gemito nell’anima, delle estreme parole di Torquato Tasso. Dopo d’essere vissuto quaranta sette anni in mezzo a’ dileggi de’ cortigiani, le noje de’ saccenti, e l’orgoglio de’ principi, or carcerato ed or vagabondo, e tuttavia melancolico, infermo, indigente; giacque finalmente nel letto della morte e scriveva esalando l’eterno sospiro: ‘Io non mi voglio dolere della malignità della fortuna, per non dire della ingratitudine degli uomini, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico’”.
Insomma, Tasso icona di poeta sfortunato, di artista incompreso e bersagliato dalle avversità, prototipo del genio romantico. E non solo d’Italia.
Ma prima di incontrare qualche illustre straniero ammiratore di Tasso va ricordato che la mostra trasteverina s’incentra sulla quercia sotto le cui fronde il poeta sarebbe andato a ritemprarsi negli ultimi giorni di vita. Nella didascalia di un’acquaforte in esposizione si legge “Veduta della Quercia di S. Filippo anche detta volgarmente del Tasso a S. Onofrio”: l’albero del poeta era dunque lo stesso albero di san Filippo Neri, che lì radunava i suoi ragazzi per i “devoti trattenimenti” (e nei pressi della quercia fu costruita una cavea per gli spettacoli sacri del santo e dei suoi successori).
Tasso e il Neri, morti a distanza di un mese, 430 anni fa, resero dunque celebre quel luogo che era, per molti romani e turisti, un locus amoenus di valore paesaggistico grazie alla spettacolare vista su Roma che da lì si ottiene. Lo certificano i tanti pittori saliti sul Gianicolo a disegnare e dipingere il paesaggio (Turner, Labruzzi, Strutt, Vasi, Marta Callcott, ecc.) anche dopo che, nel 1843, la quercia fu distrutta da un fulmine e ne rimase un moncone carbonizzato, a tutt’oggi lì desolatamente esibito; vedute che divennero souvenir de Rome, cartoline simbolo del Grand Tour europeo.
Natura e cultura, bellezza e memoria lì si fondono, come osservò Stendhal: “Quando si sentì vicino a morire il Tasso si fece trasportare qui. E non senza ragione ché questo è uno dei luoghi più belli del mondo”. Dello stesso avviso Chateaubriand, che a Gerusalemme perlustrò la Città Santa usando come guida l’epico poema di Tasso e che addirittura vagheggiava di morire a Roma, a Sant’Onofrio, descritto come “un des plus beaux sites de la terre”.
Un’idea della fama di Tasso nei secoli addietro ce la dà Goethe, che nel suo Viaggio in Italia racconta d’essersi ritrovato in un salotto romano dove si dibatteva se fosse più grande il rinascimentale Ariosto o il controriformista Tasso; a quest’ultimo il poeta tedesco dedicò addirittura un dramma (un po’ pesante) intitolato col suo nome.
Sorvolando su artisti famosi come Delacroix e Morelli, che dipinsero scene di vita e di morte del poeta, chiudiamo con una nota di leggerezza menzionando la composizione dell’umorista Achille Campanile, che s’inventò un animaletto (un tasso) che viveva nei pressi della quercia (“il tasso della Quercia del Tasso”) a cui si aggiungeva una donna strabica (“la guercia del tasso della Quercia del Tasso”): un divertissement per stemperare le tinte fosche della vicenda del poeta.
Le mareggiate della storia cancellano il passato come sabbia, ma alle volte lasciano a riva preziosi fossili che parlano di chi fummo e celano molto più di quel che appare. È successo con questa mostra.
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