Da oggi fino al 28 settembre si tiene a Roma il LXXIV Convegno del Centro di studi filosofici di Gallarate, quest’anno sul tema “Democrazia e verità. Tra degenerazione e rigenerazione”, con interventi di Marta Cartabia (Corte Costituzionale), Daniele Menozzi (Scuola Normale Superiore di Pisa), Carla Danani (Università di Macerata), Julian Nida-Rümelin (Ludwig-Maximilians-Universität München), Stefano Petrucciani, Vittorio Possenti (Università “Ca’ Foscari” Venezia); sono previsti inoltre 4 gruppi di lavoro articolati su 4 tematiche: democrazia e teorie della verità, democrazia e questioni etico-pratiche, democrazia e comunicazione, figure storiche del pensiero democratico. Una sessione – giovedì pomeriggio – sarà ospitata in Università Gregoriana.
Da punti vista differenti – filosofico, storico, giuridico – e sentendosi interpellati dal proprio tempo e chiamati a prendersene cura in compagnia degli uomini e delle donne che alle più diverse latitudini intendono far convergere il proprio impegno alla fioritura dell’umano, sarà posto a tema un nesso sentito come urgente nella sua “inattualità”: quello tra democrazia e verità. Si può parlare di inattualità, se è vero che l’Oxford English Dictionary nel 2016 ha dichiarato parola dell’anno il termine post-verità, spiegandolo così: “Si riferisce o denota circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti, nel formare l’opinione pubblica, che non gli appelli all’emozione e alla credenza personale”. Ma urgente oggi, con l’incalzare di retoriche propagandistiche, fake news, mistificazioni che inquinano la comunicazione e quindi la relazione pubblica.
Eppure sembrava, piuttosto, che questioni di verità fossero inospitabili in forme totalitarie. Orwell aveva tratteggiato con immagini vive, in 1984, la vicenda di Winston, costretto a dichiarare – o, meglio, addirittura a credere – che due più due fa cinque. Arendt, in Le origini del totalitarismo, osservava che il suddito ideale del regime totalitario è proprio l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso non esiste più. Poiché questa distinzione è tra i mezzi mentali attraverso cui ci orientiamo nel mondo, il danno operato da una coerente e totale sostituzione di menzogne alla verità dei fatti è che questo senso indispensabile viene distrutto. Va quindi messa in luce una portata pratica ma non solo strumentale della verità: non serve solo a evitare inconvenienti, ha una rilevanza che direi quasi-ontologica. È in gioco la nostra relazione con il mondo.
La democrazia, ci chiediamo allora, nella sua valenza di procedure e di forma di vita che accolgono e regolano il conflitto tra liberi ed eguali, può essere invece “amica” della verità? Non si presenta, infatti, come un regime di per sé ostile alla posizione di questioni di verità, cioè di questioni circa “il modo in cui le cose stanno”, vive infatti di libertà di pensiero, di ricerca e di parola. Non solo in sistemi democratici si può discutere, riesaminare, correggere, ma gli stessi processi attraverso cui si perviene alle decisioni che regolano la convivenza sono fondamentalmente discussivi. In questo, la democrazia può favorire l’ampliamento di conoscenza, accrescere il senso di fallibilità e corrodere le pretese dogmatiche, favorendo la ricerca della verità: che, per gli esseri umani, non può mai essere assoluta, infallibile, definitiva.
Tuttavia ci sono obiezioni all’affermazione di una possibile amicizia tra democrazia e verità. Si rileva che da un lato la verità può essere un pericolo per la democrazia: aver a cuore la verità può portare a minare la legittimità della decisione democratica, che si attesta a ciò che è condiviso e non pretende (non deve pretendere) di elevarsi all’altezza del vero. Dall’altro la preoccupazione per la democrazia può essere intesa come un pericolo per la verità: in quanto modo di vita che subordina l’interesse per la verità alla ricerca di qualche forma di accordo, di accomodamento reciproco, al quale è disposta a sacrificare almeno in parte il vero. Le possibili vie d’uscita teoriche sembrano, oggi, percorrere soprattutto strategie di depotenziamento o strategie di drammatizzazione.
Le prime, pur molto diverse tra di loro nella misura in cui si possono collocare in questo gruppo sia le riflessioni di Rorty che di Habermas, si basano sull’osservazione che non si può uscire dai propri schemi per accedere al modo in cui le cose sarebbero in sé stesse; la sola fonte di autorevolezza di un giudizio normativo sta nella scelta e nella capacità di sostenerlo.
Le strategie di drammatizzazione rilevano invece che l’appello alla verità, come a qualcosa che ha proprietà di indipendenza e indisponibilità, non può che essere motivo di conflitto insanabile o fonte di prevaricazione. La verità, nella sua pretesa di dire il modo in cui le cose stanno, è qui intesa come un’arma dogmatica, quindi antidemocratica: se valutazioni buone e giuste non sono riconducibili ai soggetti che decidono, non si elimina la libertà? Sembra che non possa darsi alternativa tra assolutismo e relativismo, in quanto opzioni epistemologiche e politiche parallele.
Invece, a ben vedere, un’amicizia sembra possibile, seppure non scontata e non necessaria, tra democrazia e verità, e non solo un’amicizia di interesse, ma per il reciproco perfezionamento. La democrazia può essere un buon modo di stare nella tensione alla verità, e la verità reciprocamente un buon modo di vivere la vita democratica. Su questa strada si tratta di approfondire la riflessione. Certo, come ha insegnato Aristotele, l’amicizia non è un rapporto necessario: eppure senza amici non si può vivere una buona vita.