Quello che resta di certa critica militante e della domenica, cioè non specialistica quanto fortemente legata a steccati ed etichette di partito e coalizione, ha violentato la memoria e l’opera di Giacomo Leopardi. Quando lo hanno descritto gobbo, livoroso e trascurato nell’igiene personale doveva essere il campione della reazione identitaria; quando solare, irenico, riappacificato, ne hanno fatto il corifeo precoce del politicamente corretto.
La verità, però, se ha uno spazio di esistenza nella letteratura, consiste innanzitutto nella gioia e nella forza di leggere il testo, pena altrimenti trasferire la coscienza del lettore nel rigo che invece non si sta leggendo, bensì deformando. Non esiste soggettivazione che non nasca dalla previa conoscenza. Incontrare l’Altro sulla base di ciò che si è.
Il modo migliore, perciò, per evitare l’angusto bivio inesistente tra un satiro nostalgico di ogni premoderno e l’Apollo di chissà quale tempo nuovo è avvicinare lo Zibaldone, monumentale collage di scritti, appunti, memorie, spunti, considerazioni e saggi, che Leopardi disseminò (e dissipò: vedremo perché) tra il 1817 e il 1832. Lo disseminò: perché in quelle oltre quattromila pagine ci sono anche i nuclei di opere più conosciute e sistematiche, riprese, rivisitazioni, anticipazioni, una sorta di pastiche tra sperimentazioni e bozzetti letterari. Inframmezzati, ovviamente, da spesso dolenti interludi autobiografici.
E, invero, lo dissipò, perché quella mastodontica opera documentale finì all’amico Ranieri e quegli stesso la destinò al dimenticatoio di un baule, o così racconta la storia del rinvenimento dell’opera. Evidentemente, tra diario datato e piccola enciclopedia del sé nel proprio travaglio interiore e nel proprio percorso culturale, lo Zibaldone ha rappresentato tutto ciò che Leopardi riteneva di dover fermare e risoffermare, senza soluzione di continuità rispetto alla vita e al talento della sua poesia.
Sia chiaro che, nonostante il carattere intimista di tante considerazioni ad alta voce, quasi soliloqui al cospetto delle proprie sconfitte e idiosincrasie terrene, non siamo in presenza di un testo soltanto autoassolutorio, ma gli si fa parimenti torto a considerarlo opera che nasce e cresce e arriva al punto concepita bella e sistemata sin dal suo primo rigo. Lo Zibaldone leopardiano appare piuttosto, oltre che non comune orgoglio nella formazione erudita di uno dei grandi autodidatti della storia, come una dialettica memoria difensiva delle proprie scelte, letture e inclinazioni: l’esercizio di pulizia mentale, morale e metodologica che conduce ai capolavori, esso stesso diventandolo.
Una cartella di un file a schermo non potrà mai dare alcun apporto esegetico ad alcune migliaia di pagine; preme piuttosto dire qualcosa che dello Zibaldone non si dice (forse perché, appunto, non si legge) e che però ci sorprende e ci smarca, rispetto al Leopardi di carta straccia della cultura echeggiata a orecchio.
In primo luogo, il Leopardi filologo e lirico contemporaneamente, quello cui la critica vera ha assegnato il primato della rimembranza poetica come motore non scritto del verso scritto, qui ha una concezione tra lo scettico e il demolitorio della memoria medesima: la compara quasi costantemente, ogni volta che la cita, all’assuefazione. Ed è una grande intuizione dal punto di vista gnoseologico e oseremmo dire persino neurologico, perché la memoria è l’abitudine a quella (e non altra) rappresentazione del fatto passato. Il primato della ragione che l’Illuminismo e Napoleone hanno portato in Italia, vestendolo del dogma tolto all’altare l’uno e del codice scagliato contro il diritto divino l’altro, è effettivamente in continua contestazione.
E però Leopardi non vi oppone la mancanza della ragione, tutt’altro: si osservino le frequenti citazioni del testo nelle quali il raziocinio è accostato al calcolo, alla temperanza, alla selezione discorsiva. Tutto sommato, echi di Leibniz e Spinoza, senza nemmeno forzar troppo la mano. La disperazione è classificata in almeno due passaggi come piacere barbaro: sentimento in effetti al quale ci si abbandona senza resa, rifiutandosi così di incamerare costitutivamente le alternative allo stato della disperazione.
Leopardi, poi, si affaccia talora al mutualismo e alla concezione retributiva sia della pena pubblica sia della vendetta privata, ma non è né un lombrosiano ante litteram né quel personaggio bilioso che è stato talora descritto. Piuttosto, è un solitario e isolato che accetta l’ineluttabile della relazionalità (fino al messianismo laico che si respira nella Ginestra): le azioni si concatenano tra loro, non vivono esterne l’una all’altra.
In un passo, la religione appare come verità relativa, dichiaratamente; Leopardi poteva benissimo voler dire effettivamente ciò, ma sembra più prudente credere, nel contesto del brano, che si riferisse al fare della tradizione ecclesiastica succedaneo del credere nella fede. Ci pare che nello Zibaldone troneggi soprattutto la definizione del pensatore: qualcuno che cerca il “filo nella considerazione delle cose”. Inizia a farlo per difendere la propria argomentazione e, così radicalmente sincero e disarmato, si trova a esser pronto ad andare contro di sé, proprio in nome di quel filo.
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