Negli attuali frangenti tempestosi, segnati anche dal recente repentino mutamento degli equilibri mondiali, che ci garantivano qualche sicurezza, le nostre società si sentono sempre più tristi e prive di prospettive. Molti mascherano le paure e la solitudine con false gioie effimere, ma ben pochi potrebbero dichiarare con baldanza di essere felici davvero. Quale può dunque essere la strada per una pienezza di vita autentica?
Padre Mauro Giuseppe Lepori, abate generale dell’Ordine Cistercense, ci offre una risposta semplice e disarmante, ma ricca di verità e conforto, nella sua ultima, affascinante opera Sperare in Cristo (Cantagalli, 2025). È uno strumento prezioso per chi voglia vivere con coscienza e profondità il Giubileo della Speranza proclamato da Papa Francesco, perché permette di comprendere la promessa di Dio, unica àncora per le nostre vite sospese nella confusione del terzo millennio: la speranza “è la promessa della vita eterna e della felicità”.
Già la sapienza di San Benedetto sapeva riconoscere nel cuore umano la tensione alla vita eterna, tanto che pose all’inizio della Regola per i monaci il grido del Signore: “C’è un uomo che vuole la vita e desidera vivere giorni felici?” (Sal 33,13; RB, Prol. 14-15).
Da qui parte Padre Lepori per sollecitare la libertà di chiunque voglia rispondere: “Io!”. Perché solo a partire da questa risposta sincera e convinta Dio può farci cominciare un cammino, “una via della vita”. Proprio come avviene nella raffigurazione dei passi incerti ma pieni di desiderio e speranza del bambino del quadro I primi passi di Vincent van Gogh, scelto per la copertina del libro.
Illustra infatti con efficacia il percorso amoroso voluto dal Signore per noi. Un piccolo di circa un anno, sorretto dalla mamma, si avvia fiducioso con le braccine tese verso il padre che, abbandonate carriola e vanga, strumenti del suo lavoro, si accovaccia a pochi metri di distanza, pronto ad accogliere con gioia il figlioletto.
Anche noi siamo chiamati, come quel fanciullino, a rispondere “Eccomi!” al richiamo del Padre, accogliendo la promessa di Dio, promessa di vita e felicità. È Lui stesso che ci attira a sé come il padre del dipinto di van Gogh, che apre le braccia in cui il suo bambino troverà conforto.
Quando però l’abate parla di vita eterna non intende solo la condizione che raggiungeremo dopo la morte, ma piuttosto “la vita eterna possibile qui e ora”, come la definisce Gesù: “Questa è la vita eterna, che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Altrimenti siamo condannati a “vivacchiare”, uno stile di vita che, come afferma papa Francesco, ci “rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza”.
Invece occorre “salvare l’essenziale, salvare ciò che permette alla vita e al senso della vita di tornare a vivere”, proprio come raccomandava il Cristo crocifisso al don Camillo di Guareschi, che si lamentava della decadenza dei tempi. “Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede a mantenerla intatta… Come fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme”.
La fede è dunque fondamento della speranza. Infatti l’autore ci ricorda che “non c’è certezza nella speranza con cui camminiamo nella vita, se non c’è questo legame con l’eternità”. Un’ancora fissata in Cielo, nell’eterno, è l’unica possibilità per l’uomo di navigare attraverso i flutti burrascosi della vita.
“La grande promessa fatta da Dio in Cristo è quella di raggiungere il Padre, di essere abbracciati dal Padre”. Solo così il cammino della vita diventa lieto, perché siamo attratti dal volto buono del Padre che ci chiama e ci vuole abbracciare. Ma perché questa strada sia davvero percorribile è necessario un salto, un passaggio per noi difficile, dalle semplici aspettative alla speranza.
Noi siamo abituati a volere tutto e subito, non conosciamo più il valore della pazienza, presi come siamo dalla fretta in ogni versante dell’esistenza quotidiana, dove il dominio incontrastato di Internet ha trasformato radicalmente la nostra concezione del tempo.
È la stessa smania di possesso immediato che ha portato alla disobbedienza di Adamo ed Eva. In realtà anche il frutto proibito era per loro, donato a loro. Tuttavia “non era donato per prenderlo e consumarlo, ma per lasciarselo donare come mistero che Dio avrebbe loro svelato nel tempo”.
Questo è il valore dell’attesa, oggi sempre meno capito dall’uomo, che afferra e non sa aspettare il dono dal Padre. È la schiavitù delle proprie aspettative, che cancella la presenza di Dio nella nostra vita. E quindi oscura la speranza che Lui non ci abbandoni.
Anche Gesù ha sperimentato l’abbandono che a volte sembra distruggerci. Ha infatti gridato: ”Mio Dio, Mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. Ma poi ha aggiunto: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Affidarsi così al Creatore è l’espressione di una speranza più grande della vita e della morte.
Pure per noi, nell’angoscia, la speranza è un rapporto, un essere tesi verso l’abbraccio del Padre. Sebbene non sappiamo camminare, come il bambino di van Gogh, ci è chiesto di tenderci verso Qualcuno che ci aspetta con amore, nelle circostanze che attraversiamo.
Dobbiamo saper attendere, perché la nostra umanità sia pienamente compiuta. La fatica, la capacità di sopportare i pesi della vita hanno in sé il senso dell’attesa, perché non possediamo il tempo; attendiamo Lui, vero senso del tempo. E se la speranza è per ciascuno di noi, siamo chiamati anche a guardarci reciprocamente con speranza.
Così da “non rinchiudere l’altro, e neppure noi stessi, dentro i limiti dei nostri limiti”: l’apertura all’infinito ci fa attendere la grazia che Dio promette ad ogni vita e può sempre realizzare. Vivere la speranza vuol dire vivere nella coscienza che solo Cristo ci salva. Abbandonandoci al Padre, come nella splendida preghiera di Charles de Foucauld, che conclude la meditazione di Padre Lepori.
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