È proprio un buon libro questo di Daniele Mencarelli (Brucia l’origine, Mondadori, 2024). Un amico che all’anno ne legge una quarantina mi ha detto: va via in un fiato ed è raro che mi succeda, peccato sia tutto in romanaccio. Ed è così. Mencarelli è bravo a portarti dentro la storia di Gabriele e poi dei suoi famigliari e dei suoi amici, descrivendo incalzante una vicenda che dura qualche giorno, ordinaria solo in apparenza e che tocca le cose dal di dentro – come deve fare la letteratura –, che incanta e fa germinare speranze, compassione e a volte un pizzico di struggimento.
Gabriele, il protagonista, è il ragazzo della periferia di Roma che lascia tutto, trasportato dal suo talento sconfinato, e atterra a Milano, dove realizza il sogno di tutti quelli che lasciano casa con un sogno: avere successo. È un designer borgataro che non si è formato nelle più prestigiose scuole del mondo, da cui arrivano tutti gli speranzosi che bramano di affermarsi nella capitale dell’innovazione del design. Gabriele viene dal niente, ha poco più di un pezzo di carta come diploma, ma è una gemma speciale, grezza sì, ma pura, che un maestro intravvede, scopre e spinge verso l’olimpo.
Questo è il sottofondo che si scopre appena accennato: la vita di Milano, i successi, l’amore, le frequentazioni di un certo tipo e un certo tipo di vita meneghina stanno sullo sfondo come lo scenario, ma la storia è altrove, perché dopo otto anni il designer talentuoso fa ritorno a casa per qualche giorno in famiglia.
Otto anni sono tanti per coprire una strada che in treno – come dice il padre – si fa in poco più di tre ore. Sì, ci sono di mezzo gli anni del Covid, ma non bastano a giustificare l’assenza: sono il linguaggio di un uomo che non torna perché non riesce e non vuole rimescolarsi al mondo che non vuole e che, pure, ama e lo ama.
Qui si innesca la contraddizione che è la trama essenziale del romanzo: Gabriele dal primo istante all’ultima pagina è fisicamente abbracciato incondizionatamente da mamma, papà, sorella e da tutti quei quattro meravigliosi amici con cui è cresciuto, ma da questo amore si è staccato, non lo vuole.
Da anni non ridevo così, si scopre a dire – forse non volendolo nemmeno ammettere – in una delle serate romane con gli amici.
E perché non hai mai riso così, Gabriele? Eppure sei arrivato. Agli occhi di quei quattro amici di sempre che vivacchiano, tu sei quello che ce l’ha fatta, soldi e successo e belle donne. In uno dei dialoghi più intensi con Cristiano, il più duro dei borgatari, ammette: “vivo senza una terra, senza un mondo, me sento sospeso ovunque”.
E ottiene di rimando la sentenza: “noi te facevamo ricco e felice. Ricco ce sei diventato, mortacci tua, ma sul felice, ce devi ancora lavorà”. E cos’è questo lavoro che occorre fare? Cos’è che non ci lascia mai in pace? E cos’è questa pace che cerchiamo in ogni cosa?
Il nuovo Papa, Leone XIV, ha esordito invocando la pace. Certo è essenziale la pace tra i popoli in questo mondo dissanguato dalle guerre, ma c’è una pace che fonda la pace, che è appunto l’origine che non si può bruciare, come ha mirabilmente ricordato il cardinal Pizzaballa in una lectio magistralis per me indimenticabile:
“Com’è noto, l’ebraico shalòm – come del resto il suo corrispettivo arabo salàam – indica molto più di una situazione sociopolitica di assenza di guerra: esso esprime ‘pienezza di vita’, approccio integrale. Non è quindi solo una costruzione umana o un traguardo dell’umana convivenza, quanto piuttosto una realtà che viene da Dio e dalla relazione con lui: è il compimento delle promesse messianiche. Gesù Cristo, il Messia è Sar shalòm, ‘Principe della Pace’ (Is 9,5), è lui stesso ‘la nostra pace’ (Ef 2,14), l’unico che ha abbattuto la barriera tra gli uomini, il muro d’inimicizia che era frammezzo (cf. Ef 2,14-16). Da Gerusalemme è risuonato il grido del Risorto che è giunto fino agli estremi confini della terra: ‘Pace a voi!’ (Gv 20,19). Non a caso, è questa la prima parola del Risorto agli apostoli e alle donne riuniti nel Cenacolo e questa, come uomini nuovi e risorti, deve essere anche la nostra prima e ultima parola. Non è una ‘pace mondana’ – dice Cristo – ma la ‘mia pace’ (Gv 14,27). La ‘nostra pace’ ci dona quindi la ‘sua pace’, poiché ci dona sé stesso, morto e risorto per noi. Il cuore della pace è il mistero pasquale di Cristo“.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.