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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ “Nessuno può toglierci la ginestra di Leopardi e l’infinità di Blake”

  • Letture e Recensioni
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LETTURE/ “Nessuno può toglierci la ginestra di Leopardi e l’infinità di Blake”

L’Occidente è tensione, sia pure in varie forme, dell’io umano all’eternità, un infinito cui ci scopriamo da sempre legati. La sua ricerca ci fa migliori

Emanuela Andreoni
Pubblicato 3 Luglio 2025
Oceano, Altare di Pergamo (foto Claus Ableiter, Wikipedia, particolare)

Oceano, Altare di Pergamo (foto Claus Ableiter, Wikipedia, particolare)

To see a World in a Grain of Sand,
and Heaven in a Wild Flower.
Hold Infinity n the palm of your hand
And Eternity in an hour
(William Blake, Auguries of Innocence)

Questi versi riassumono la poesia dell’anima dell’Occidente, nei suoi millenni. In essi riaffiora ancora, in tempi moderni (XVII secolo), l’ancestrale conoscenza primitiva, quella del magicum continuum: l’armonia che fluisce tra natura e umani che in essa si immergono, riportandone, da un grano di sabbia, da un fiore selvatico, da un tempo che scorre, la consapevolezza dell’immensità, dell’incommensurabile cui appartengono.


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L’Occidente estenua a tal punto la materia da spezzarla e creare l’idea di un dualismo, dove la sublimazione del pensiero trova l’altra parte, cioè la materia residuale, che rimane dalla divisione, per incolparla dell’animalità nell’uomo.

Ma è proprio questo dualismo che dice tutta l’angoscia dell’uomo occidentale di sapersi colpevole di qualcosa che sa di non essere bene. Si generano ipotesi. Una favola antica narrava della razza umana nata dalle ceneri di un dio inghiottito dalla materia bruta, i Titani, e folgorati perciò dalla somma divinità.


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Di queste ceneri miste sono composti gli uomini, da esse riplasmati dal dio, portando perciò, insieme alla particella divina inghiottita, ovvero l’animus-mens che ci contraddistingue, il marchio di una colpa originale per la matrice bruta entrata nella sua composizione.

Colpa convalidata, anche in altro contesto, che oppone comunque ab origine un dio creatore e gli umani disobbedienti: è l’antica parola di un testo sacro che informa l’Occidente, la Bibbia, che narra dei suoi progenitori.

Quanti libri, quanti nomi, quanto pensiero su questa origine del male. Quanti miti, in cerca di rispondere al logos o ragione che interroga.


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E da questo lato della colpa mettiamo tutte le guerre, i genocidi perpetrati dai popoli, come pure errori e peccati ascrivibili non solo ai popoli, ma anche ai singoli, agli individui: questa è la condizione umana in cui ogni vita si trova presa. Ogni contrada della terra, non solo l’Occidente, ne è coinvolta e non sono bastati millenni su millenni perché l’uomo non fosse costantemente “lupo all’altro uomo”.

Vane sono le giustificazioni, come il rifugiarsi nel nostro Dna.

Eppure su questa lava (impetrata lava, Leopardi) dell’abominio fiorisce il fiore della ginestra: il dualismo dell’Occidente assicura la possibilità di essere, o meglio di tentare di essere anche “puro bene” e invoca il coro delle virtù, garantite dall’uomo savio, dall’oracolo, o dal Libro dei libri che condensa i dieci comandamenti (Es 20,2-17; Deut 5,6-21).

Su tutte le virtù si distende la pietas dei Romani, che indica appunto questa purezza del sentire (cfr pius), un senso d’amore e di comprensione che esce dai suoi limiti storici per universalizzarsi e coinvolge il sentimento da provare nei confronti dei familiari, della nazione, della divinità, estendendosi al nemico, ai vinti, all’altro da sé.

Questa è l’humanitas che si sostiene sulla consapevolezza della cultura, e questo è l’umanitarismo che ne deriva e si riflette d’intorno.

Come l’uomo ha creato la società, ci si chiede da sempre? Per un interesse comune, secondo il materialismo epicureo, ma già definito tale dai sofisti, oppure per un afflato naturale l’uomo è zoon politikòn, “animale politico” (da intendersi nella comprensione della sua piccola città-stato di allora, che lo racchiude) secondo la definizione di Aristotele, o anche koinonikòn, nato per la comunità, quindi sociale, secondo gli stoici, che divengono cosmopoliti, dopo il frantumarsi del disegno imperiale di Alessandro?

Nei secoli materialismo e spiritualismi rispondono, seguendo l’una o l’altra via, costantemente arrivando ai più i emblematici Hobbes e Rousseau, e giungendo infine alla dismissione del problema dell’origine, rinviato peraltro a Darwin, e soffermandosi piuttosto sulla nascita e formazione dei caratteri originari della modernità e delle prerogative dell’Occidente (Marx, Durkheim, Weber).

L’Occidente comunque nei millenni ha creduto nella virtù paga di sé stessa, ha ritenuta valida la sospensione del giudizio, o ha accarezzato la possibilità di un dio caritatevole, un dio d’amore che propone la ricompensa post mortem a chi ha vissuto secondo virtù: come pure, scartando l’amore (agàpe) di un dio, anche il paganesimo lasciava ai suoi virtuosi i Campi Elisi e per altra dottrina l’anima si dissolveva nelle sue emozioni sulla Luna, mentre il nous saliva e si scioglieva nel Sole.

Secondo Nietzsche è un’etica da schiavi quella delle virtù esaltate dall’Occidente, soprattutto nella sua veste cristiana e nel suo dio sofferente, nel momento in cui il filosofo gli opponeva il suo indisciplinato e svincolato Übermensch che si ripara, non avendo altro, nell’atono nichilismo.

L’attacco ai valori dell’Occidente da ultimo della woke culture non è quindi nuovo, e ha un maestro più notevole della raffazzonata e confusionaria ideologia uscita dai suoi limiti originari di protesta pura e semplice contro il colonialismo, per essere seguita storditamente da epigoni che giudicano senza l’avveduta intelligenza della storia e dei contesti, nello spazio e nei tempi. D’altronde anche Hitler pensava di annientare la storia e i valori dell’Occidente bruciando i suoi libri.

Ma la forza dell’Occidente, nel suo ripetersi di vite vissute (Ocean of time, Percy B. Shelley), è stata proprio questa: rigenerarsi con il lume della Ragione, dopo questi attacchi ciechi, darsi sempre una possibilità di purificazione, dovrei dire proprio avendo superato i roghi della notte dell’intelletto.

L’Occidente ha ribadito la libertà dell’individuo, la libertà dei popoli, ha formulato il diritto, ha scritto la legge, il patto che è un augurio di nec laedere nec violari (Lucrezio, non arrecarsi né danno né violenza) e la fratellanza cristiana che aveva i suoi prodromi, seppur non ancora carichi di questo affetto nelle parole di Seneca: “hominibus prodesse natura me iubet” (la natura mi ingiunge di giovare agli uomini, De vita beata).

L’Occidente ha innalzato colonne ornate di foglie di acanto, dato forma di disciplina alle scienze e alle tecniche, plasmato marmi, costruito altari profumati di incenso, dipinto immagini e sogni, armonizzato i suoni, spinto lo sguardo oltre le stelle e ha messo in versi la poesia dell’origine della famiglia: “mulier coniuncta viro concessit in unum/…/ … prolemque ex se videre creatam,/ tum genus humanum primum mollescere coepit” (e la donna si concesse a un solo uomo/… / … e videro la prole da sé generata, allora il genere umano cominciò ad ammorbidirsi – a uscire dalla ferinità, Lucrezio).

L’Occidente non ha ignorato da sempre la bellezza dell’amore e della giovinezza che le spade distruggono: “quis fuit, horrendos qui protulit enses?” (chi per primo ha inventato le orrende spade?, Tibullo) mentre il desiderio, l’aspirazione è altra: “quam iuvat immites ventos audire cubantem/ et dominam tenero continuisse sinu,/ aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,/ securum somnos imbre iuvante sequi!” (che piacere sdraiati, ascoltare l’infuriare dei venti e tenere la propria donna stretta dolcemente sul petto, o quando l’Austro invernale avrà versato le gelide acque abbandonarsi senza pensieri al sonno, al suono della pioggia, Tibullo).

L’Occidente tiene sempre accesa la speranza del suo credo prometeico di una idea del bene e di bellezza vincente, per fiducia umana, per grazia divina che gli uomini si attendono. La sua fede così intera, così irriducibile è l’essenza stessa dell’Occidente, che guarda con fermezza sincera e con animo puro, quasi incantato dalla vita, al suo limite umano: “Quoi? L’Eternité./ C’est la mèr allée/ avec le soleil” (Rimbaud).

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