È tornato alla narrativa Paolo Ruffilli con “Fuochi di Lisbona”, una vicenda che ripercorre in modo nuovo Pessoa e il suo sentimento del mondo
Felice ritorno alla narrativa per Paolo Ruffilli, nato a Rieti ma adottato da Treviso, dove vive dal 1972. Con Le cose del mondo nel 2020 aveva ricapitolato quarant’anni di produzione in versi, con un libro che aveva guadagnato consensi vasti e autorevoli.
Di lui si accorsero subito Montale e Barthes, seguiti da Sereni, Raboni, Zanzotto. Nella sua bibliografia, oltre ai libri di poesia, compaiono romanzi e racconti – ricordiamo con piacere Preparativi per la partenza, gustoso “repertorio di casi stravaganti”, del 2003; è traduttore di Gibran, Tagore, metafisici inglesi, la Regola celeste del Tao; biografo di Nievo e Goldoni, studioso di Foscolo e Leopardi.
Con questo Fuochi di Lisbona (Passigli, 2024) si potrebbe dire che Ruffilli riunisca tutte queste figure: narratore innanzi tutto, ma anche poeta, biografo, traduttore, saggista. Non sono rari i casi ormai, nella nostra letteratura, in cui i poeti ci danno le prove narrative più convincenti.
Anche questo libro di Ruffilli prende le mosse da un viaggio: ricordiamo i già citati Preparativi per la partenza e la prima sezione de Le cose del mondo, intitolata Nell’atto di partire. Qui il protagonista è uno studioso di Fernando Pessoa, diretto a Lisbona per un convegno sullo scrittore portoghese, uno dei grandi miti letterari del Novecento. Appena arrivato, intesse una travolgente relazione con Vita, ancora ignaro che “innamorarsi di una donna portoghese è la cosa più rischiosa che ci sia”.
Con ritmo incalzante, la vicenda ripercorre le fasi altalenanti dell’amore di Pessoa con la giovane Ophélia; la storia del protagonista, non a caso senza nome, è riscritta come in un palinsesto sopra quella vissuta molti anni prima da Pessoa. In caratteri alternati, tondo e corsivo, leggiamo la vicenda accaduta all’io narrante e il carteggio intercorso tra Pessoa e Ophélia, traendo l’impressione che il protagonista sia una reincarnazione di Pessoa e che quest’ultimo lo avesse previsto con queste parole: “È un’invisibile tenace ragnatela che ci avvolge, fatta di tante congiunzioni sotterranee, di legami astrali, di corrispondenze inafferrabili da noi…”. “Coincidevo in tutto con Pessoa. Ero magari la sua copia opaca”, leggiamo nelle ultime pagine.
Nel romanzo, Lisbona è una città femmina, sdraiata sulle rive del Tago “come una donna sul bagnasciuga, abbandonata al sole del tramonto”; città in cui scivola l’Europa, l’estremo Occidente affacciato sull’Atlantico, da cui sono partiti i più arditi esploratori, da Vasco da Gama a Cabral; fra le sue vie corre la voce di Amália Rodrigues, la regina del fado; e poi Henrique, l’amico portoghese che lo aiuta a decifrare la sua storia con Vita; ed ancora il poeta Herberto Hélder, che raccolse l’eredità di Pessoa e che qui compare come personaggio che consegna al libro le verità più profonde, caricando su di sé il nostro destino di esseri finiti: “La nostra vita è incomprensibile come l’aldilà. Ma non bisogna averne, poi, paura. Non temo, no, la vita anche se a viverla non la capisco. Ma ne sappiamo così poco… ed è migliore, certo, di quanto immaginiamo noi”.
Hanno ragione Pessoa e Hélder, riconosce il protagonista: “le idee sull’inutilità del mondo facevano ammalare le persone e fermavano il motore della vita. ‘È una disgrazia’ insisteva Herberto, ‘che danneggia ancor di più gli uomini, negare il senso delle cose. E, se la vita non ha senso, a perdere valore è proprio tutto ciò che di alto e bello esiste al mondo. Non ci sarebbe più progresso della scienza, dell’arte e neppure del pensiero, le cose che riescono ad aprire un varco nel luogo di silenzio che abitiamo, rimuovendo i macigni di tenebra che tendono a schiacciarci. E l’oppressione avvolgerebbe tutto nella sua cupa ragnatela…’”.
Che questa sia la chiave del romanzo, lo testimonia il fatto che essa sia ripetuta, alla lettera, verso la fine del libro, a conclusione della sua strana, inafferrabile storia. Al centro della quale si accampa la trama dell’amore tra i due protagonisti. Ruffilli porta qui a compimento la sua personale fenomenologia dell’amore, che aveva già indagato in Affari di cuore del 2011 e nella sezione Atlante anatomico del recente Le cose del mondo.
Gli “opposti polari”, maschile e femminile, si attraggono e si respingono e “il letto per l’amore/ è un campo di battaglia/ del mistero” (Affari di cuore): qui “il tuo corpo mi sembra l’incarnazione stessa del mistero”, suggerisce Pessoa.
Romano Guardini avrebbe chiosato, nella sua L’opposizione polare, che opposizione non è contraddizione e l’unità degli opposti è garantita da due momenti diversi ma necessari l’uno all’altro, come l’inspirazione e l’espirazione. In filigrana, leggiamo le straordinarie Lettere a Milena di Kafka: in effetti Pessoa è “più kafkiano di un personaggio di Kafka”, ha scritto il massimo esperto dello scrittore portoghese, Antonio Tabucchi, che firma una Nota di lettura al libro di Ruffilli, scritta poco prima di morire nel 2012. L’amore come possibile risposta al disperdersi dell’io, alla molteplicità dei frammenti, all’affollata solitudine, nella ricerca di un nome.
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