Nero d’Inferno (Mondadori), il secondo romanzo dello scrittore ravennate Matteo Cavezzali, si getta sulle tracce di Mario Buda, chiamato dagli americani Mike Boda, un emigrato romagnolo che arriva nel 1907 in cerca di fortuna a New York. Ci viene descritto come uno dei primissimi terroristi della storia, anzi forse l’inventore del terrorismo moderno; è lui il probabile, solitario autore dell’attentato di fronte a Wall Street del 16 settembre 1920, quando l’esplosione causata da un carretto carico di dinamite causò 38 morti, 143 feriti e un’enorme impressione nell’opinione pubblica mondiale, per nulla abituata a episodi terroristici del genere, accaduti cento anni fa.
Lo stile in cui il libro è scritto è formidabile: Cavezzali ha il talento di tenere uniti registri diversi che a loro volta tengono avvinti il lettore: il registro narrativo permette di immergersi nell’atmosfera dell’epoca, il mondo delle comunità nazionali emigrate negli States – italiani, irlandesi, tedeschi, olandesi, polacchi, turchi… – sfruttate dall’insorgere di un capitalismo rampante e cieco di fronte ai diritti dei lavoratori e fatte bersaglio di razzismo dall’opinione pubblica americana che li vedeva (soprattutto gli italiani) sporchi, brutti e violenti, definendoli in mille modi offensivi, tra cui qualcosa come “negrimozzarella”; il registro giornalistico che consente all’autore di avvicinare i fatti al presente, come se fossimo di fronte a un’inchiesta d’attualità, anche mediante l’ampio uso che fa, capitolo dopo capitolo, dei vari punti di vista dei diversi protagonisti della storia, il che fa restare il racconto sempre acceso e vivido; il registro storico infine consente allo scrittore (che talvolta vediamo in azione nel suo stesso romanzo mentre compie ricerche, va a caccia dei luoghi e delle persone, soprattutto di Buda, e si pone domande sulla storia e il senso degli atti umani) di darci un quadro completo dell’epoca degli avvenimenti raccontati.
Cavezzali non è nuovo a opere del genere. Il suo primo romanzo, Icarus, ascesa e caduta di Raul Gardini, narrava la storia dell’imprenditore ravennate e del tragico e torbido epilogo della sua vita ed è stato apprezzatissimo dalla critica e dai lettori. La storia di questo nuovo volume è anche quello delle cellule anarchiche italiane – a cui i romagnoli diedero un grosso contributo e non solo con Mario Buda – che combatterono in nome dei loro ideali contro lo sfruttamento del proletariato compiendo diversi attentati e subendo persecuzioni, condanne sommarie, arresti. Siamo negli anni di Sacco e Vanzetti, forse i più conosciuti, due anarchici italiani condannati innocenti alla sedia elettrica per un attentato che non avevano compiuto. Nel romanzo ci vengono raccontati anche i loro rapporti con Mario Buda, il quale immediatamente dopo l’attentato di cui forse fu l’autore scomparve dagli Stati Uniti per ricomparire in Italia, in epoca già fascista, dove subì il confino e finì i suoi anni a fare il calzolaio a Savignano sul Rubicone, il paesino sulla Via Emilia tra Rimini e Cesena, dove fu lasciato in pace persino dagli americani quando giunsero a liberare l’Italia dal nazifascismo. C’è abbastanza materiale per una storia avvincente dai contorni misteriosi, romanzesca e storica insieme.
Anche il titolo del romanzo, che si riferisce al colore da scarpe preferito dal protagonista calzolaio, si rifà in realtà all’anarchia, la cui bandiera è appunto nera. Tra noi romagnoli, molti hanno fatto in tempo a vedere funerali di anarchici col feretro avvolto dalla bandiera nera, intesa non come colore del lutto ma, appunto, dell’anarchia. Anche quell’epoca della Romagna, piena di passioni e fazioni politiche, con repubblicani, socialisti e anarchici a darsele di santa ragione, è magistralmente evocata da Cavezzali.
C’è poi senz’altro il chiaro riferimento all’attualità, ai migranti di oggi, allo sfruttamento e ai pregiudizi che sempre ritornano di fronte a migrazioni eccezionali come fu quella in America di cento anni fa e quelle in Europa di oggi. Viene raccontato ad esempio come funzionava Ellis Island, l’isola di fronte a New York dove venivano preventivamente sbarcati gli emigranti per essere visitati, schedati e persino selezionati prima di poter raggiungere la propria destinazione; anche Mario Buda vi passò più di una settimana. Inutile negare l’attinenza agli hotspot di oggi o peggio ai campi per migranti, ad esempio in Libia. Oppure viene riportata la vita degli operai italiani nelle fabbriche americane, il duro lavoro per stipendi da fame, le traballanti definizioni di democrazia e sogno americano.
Non tutto in realtà può essere messo in parallelo con la nostra attualità; basti pensare che le migrazioni del secolo scorso avvenivano per accordi fra Stati e per l’immenso bisogno di manodopera della nascente industria americana, mentre quelle di oggi sembrano quasi organizzate contro gli Stati, verso nazioni che, come l’Italia, vedono addirittura il risorgere dell’emigrazione dei propri giovani per mancanza di opportunità lavorative. Ma nel romanzo ce n’è abbastanza per farci pensare, e molto, anche a noi, e per seguire il filo di una vicenda storica raccontata con fresca e moderna capacità narrativa.