Los Angeles è nel pieno di una rivolta razziale. Non è una guerra tra poveri e ricchi, ma tra chi ce l’ha fatta e chi no. Solo la fede può (ri)unire gli Usa
Hanno un impatto particolare, sospeso a metà tra la copertina di un disco rock e certi cromatismi della pittura di Edward Hopper, le foto di una settimana addietro a Los Angeles.
La città degli Angeli era (e in parte ancora è) nel pieno di una vera e propria rivolta razziale, dove tuttavia la questione razziale in sé – Dna, epidermide, anagrafe – non era così in vista: più riot politico violento che corteo o sit in.
Migliaia di ispano-americani in rivolta contro la Presidenza Trump e, sulla carta, le sue politiche migratorie. Senonché non può bastare ciò a spiegare le bandiere messicane issate dagli incappucciati in piazza o le maschere col viso del presidente impalate sulle aste, tra auto della polizia in frantumi. C’è una incomunicabilità dietro, assai più profonda, e riguarda il modo in cui la politica statunitense ha piegato il proprio diritto costituzionale a danno dei non cittadini.
Il movimento chicano nasce alla fine degli anni Sessanta e sembra agli osservatori una versione in sedicesimi delle lotte civili della comunità afroamericana. In fondo gli ispanici hanno sempre percorso le porte scorrevoli della frontiera meridionale, sia quando erano girelli della burocrazia sia quando sono state tagliole dell’amministrazione e della polizia.
E i frutti sono chiari: un vago spagnolo ricco di slang e contrazioni è la seconda lingua più parlata a New York e forse sin d’ora la prima a Los Angeles. Il Dipartimento di Polizia, il LAPD che vediamo nei film tratti dai legal thriller di Connelly, deve entrare in ghetto e sobborghi con gli interpreti; ispanici sono i cartelli di sanitarie, market, studi forensi e compagnie assicurative.
Intorno a quello stesso linguaggio, con una fonetica e una grammatica molto diverse dal castigliano aulico, si riconoscono colombiani, messicani, peruviani. Persino cileni e argentini, questi ultimi storicamente testa di ponte tra la migrazione italiana (che assorbirono) e quella, appunto, spagnola. Non è un caso che nel celebre Chiedi alla polvere di John Fante la storia d’amore (mancata, ça va sans dire) sia tra una cameriera chica e uno spiantato scrittore strampalato dal nome e cognome italiano.
La propaganda elettorale dei dem a stelle e strisce ha continuato a credere che le categorie sociodemografiche orientassero il consenso elettorale, e non viceversa. Il trionfo di Trump, che è soprattutto il flop di Kamala, parte da lì: dagli ispano-americani e dalle donne che hanno votato per l’apocalittico parrucchino biondo. Quelli arrivati al livello medio-imprenditoriale della scala sociale e quelli che tale livello inseguiranno tutta la vita vanamente.
E questi ultimi sono saliti sulle jeep a fare i disordini, esattamente come lo sciagurato assalto del Campidoglio che voleva rovesciare Biden (e che riuscì comunque a disconoscerlo) fu forse orchestrato da manine anonime dei grandi gruppi di pressione, ma intimamente condiviso e in parte pure attuato dalla profondissima America bianca in crisi di reddito, certezze e autostima.
Ed è questa un’amara costante del disagio urbano statunitense dell’ultimo decennio: non è in atto una lotta di classe poveri contro i ricchi, ma una contrapposizione sfacciata e trasversale tra comunità che si percepiscono l’una usurpatrice dell’altra. E il reddito e le proprietà contano tuttavia assai meno che in passato; come sempre meno conta il riconoscimento normativo formale di un diritto civile.
Il “Black Lives Matter” portò a galla una rete di prevaricazioni e profilazioni di polizia, declinandola prevalentemente in termini razziali. E tuttavia ciò finiva per ignorare una critica universale alle politiche interne securitarie del “gigante bianco” e rese facile opporre ai dimostranti una pari sensazione di frustrazione da parte delle famiglie dei corpi di polizia. Anche loro dubbiose sul riuscire a riabbracciare a fine giornata un familiare.
Le odierne agitazioni nelle università, contro le azioni del governo israeliano, e a favore dell’autonomia palestinese, avranno anche le bandiere estere, ma soprattutto portano il conflitto dentro casa. Vincerà la tradizione del pluralismo (aperto fino a includere il dissenso radicale) o il pluralismo della tradizione (diversamente vivere, ma simili tra simili)?
Per strano che possa apparire, chicanos, wasp e blacks sembrano oggi condividere, sotto la bandiera, soltanto la comune ascendenza cristiana. E se la litigano, su chi abbia in mano e detenga il pezzetto di interpretazione giusta.
Oggi più che mai il futuro della libertà religiosa, che è servita a edificare la nazione delle madri e dei padri, ha disperatamente bisogno di quella coesione che solo il dialogo garantisce. Ma tra urla e divise, roghi e dazi, droni e taser, nessuno sembra avere interesse a parlare con l’altro. È il Paese di Ask the dust, una volta di più. La polvere almeno, si sa, non risponde per definizione.
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