“Quante volte in vita mia ho dovuto fare il duro con gli amici che si drogavano. Quelli con cui sono stato veramente duro ne sono usciti. Quelli con cui non lo sono stato abbastanza non ce l’hanno fatta. E’ una cosa a cui penso spesso. Ai due di noi che ci hanno lasciato (Keith Moon e John Entwistle, ndr). Ma da questo punto di vista sono sempre stato in minoranza, non solo nella band ma in tutta la maledettissima Londra. A Soho si impasticcavano tutti. Facevi la fila per prendere il biglietto. Poi facevi la fila per prendere la droga. Era tutto alla luce del sole (e lo è ancora). E quando il governo si sveglio e cominciarono a dare la caccia agli spacciatori, si limitarono a cambiare pasticche. Cazzo, non mi sorprende che Keith, il ragazzetto che ci aveva subito stesi con la sua versione di Road runner non riuscisse più a tenere il tempo. Capii immediatamente che io ero diventato il nemico. Il rock’n’roll era diventato tutto un prendere più droghe possibili finché morivi. Io ero il guastafeste. Loro volevano vivere liberi e io rovinavo tutto”. Per questo motivo, per aver buttato nel cesso un sacchetto di pillole di Keith Moon dopo un concerto disastroso perché tutti gli Who tranne lui erano strafatti, Roger Daltrey venne addirittura licenziato dalla band. Venne ripreso quasi subito, perché senza la sua voce gli Who non potevano stare insieme, ma questo erano gli Who.
D’altro canto Daltrey era una autentico figlio della classe operaia, qualche birra al massimo, ma niente droghe. Quando gli chiesero di tornare, impose una accordo: niente droga prima di suonare. Dopo, dice, potete fare il cazzo che volete. Ma avrebbero comunque pagato un prezzo alto.
L’autobiografia del cantante ( “La mia storia con e senza gli Who, Caissa Italia, 223 pagine, 22,00 euro) è una delle poche nel suo genere ad essere imperdibili. Toglie ogni velo su una delle tante mitologie del rock, non ha peli sulla lingua, dice chiaramente che Pete Townshend era un ragazzo di buona famiglia, viziato, che passava i pomeriggi sul divano a farsi di canne mentre lui si spaccava le ossa in fabbrica. Non sopportava John Entwistle, personaggio maligno e invidioso che lo punzecchiò acidamente per anni (lo paragona al Cugino Kevin di Tommy), mai perdonandogli la sua attitudine di lavoratore. Non per questo Daltrey si considera un santo, anzi. Quando mette incinta la sua ragazza a vent’anni ed è costretto a sposarla, la lascia dopo un mese: non può rinunciare alla musica, non può tornare a fare l’operaio per mantenere lei e il figlio: “Ero un bastardo menefreghista. Adesso lo capisco e lo capivo anche allora, ma forse era il prezzo per far decollare la band. Ero completamente ossessionato dal sogno della band non pensavo ad altro. (…) Alla fine lo capisci il perché. Capisci che anche se sei stato un grandissimo stronzo e un bastardo menefreghista non avresti potuto fare diversamente per realizzare il tuo sogno”. Poi, una volta raggiunto il successo, Daltrey si sarebbe preso cura della ex moglie e del figlio. Sarebbe stato meglio per loro che se fosse rimasto a fare l’operaio, hanno avuto una vita migliore, anche se hanno sofferto molto.
Ma questo era il rock’n’roll allora: farsi largo a ogni costo in quello che era un mondo tutto nuovo, dove nessuno ti aiutava e dovevi contare solo su di te.
Daltrey con un linguaggio di strada, come essere seduti al pub, racconta con dovizia di particolari quell’epoca storica e anche qui si distingue dalla massa: “La prima volta che venni a conoscenza dei mods fu nell’autunno del 1963 (…). Anche io cercai di essere un mod, ma a dire il vero sarei stato qualsiasi cosa mi avessero chiesto di essere, cazzo, purché non avesse avuto a che fare con una fabbrica di lamiere. E se vogliamo essere onesti, senza sperticarci in elaborate tesi culturali con la pretesa di trovare una spiegazione per ogni cosa, non aveva importanza come ti definissi. Eravamo giovani. Molti di noi appartenevano alla classe operaia. Avevamo un po’ di soldi da spendere nei vestiti, nelle sigarette e per uscire. Volevamo goderci la nostra libertà. Ma tutta la letteratura fiorita sui mods… è stata scritta con il senno di poi. Quando si vuole concettualizzare tutto per forza. Non era altro che una moda”. Ecco. Grande Roger e fanculo ai miti costruiti a tavolino.
La storia musicale naturalmente viene ricostruita anche se non nel dettaglio. D’altro canto l’autore delle canzoni era Pete Townshend, spesso Daltrey non capiva neanche il significato dei brani, ma era onorato e felice di poterle cantare (quanti sanno che I’m a boy, composta nel 1966, è probabilmente la prima canzone della storia con a tema una ragazzina transgender?). Il cantante si sofferma anche poco sulla morte di Keith Moon e John Entwistle, quasi con fastidio passa subito oltre. Si capisce, ma lo dice lui stesso, che i quattro Who originali non ebbero mai dei buoni rapporti sin dall’inizio ed ecco perché finivano spesso a prendersi a cazzotti. Non certo un esempio idilliaco, ma più forte di tutto, l’unica cosa che li tenne insieme, la musica. E ne fecero di grandissima.
Nel libro i retroscena dei grandi momenti: da Woodstock all’Isola di Wight al concerto di Leeds. E poi Tommy, Quadrophenia e via via tutte le reunion. Sempre una lotta, sempre una conquista mai scontata.
Alla fine quello che resta di quest’uomo e della sua storia è una immagine bellissima, che la dice lunga di come il mondo, nonostante il passaggio del rock, sia solo peggiorato: “Una delle tristezze della vita moderna è che nessuno canta più. Allora lo facevano tutti. Camminavi per la strada e la gente cantava nei cantieri edili, ne cantieri stradali, nelle autorimesse, ovunque. Quando canti, sei felice”. Già: oggi chi è che è felice?