Un recente convegno internazionale svoltosi a Nanchino (Cina) ha messo a confronto i più noti filosofi morali occidentali con quelli cinesi
Il filologo e sinologo francese François Jullien ha insistito sul vantaggio di poter guardare l’Occidente dall’Estremo Oriente, a partire da quella civiltà millenaria, ma culturalmente oltre che geograficamente assai lontana, che è la Cina.
Ma si può provare utilmente anche a guardare la Cina dall’Occidente. Un’occasione propizia per fare entrambe le cose è stata offerta da un recente convegno internazionale tenutosi il 24-26 maggio scorsi a Nanchino (Cina) su Ethics and Civilization, cui hanno partecipato alcuni tra i più noti filosofi morali occidentali come Peter Singer, Thomas Scanlon, Christopher Shields, Rainer Forst e molti altri, oltre ad alcuni tra i più importanti filosofi cinesi.
Potrebbe sembrare paradossale, ma anche data la disponibilità economica della Cina nel campo degli scambi culturali, certe occasioni di incontro fra intellettuali occidentali sembrerebbero essere più facili oggi in luoghi lontani dall’Occidente.
La prima cosa che colpisce negli intellettuali cinesi di formazione umanistica, alcuni dei quali hanno studiato in prestigiose università occidentali, oltre che una cordialità umana, è la volontà esibita di aprirsi al mondo e di dare un peculiare contributo recuperando la loro tradizione, soprattutto di matrice confuciana, contraddistinta dalla benevolenza, dalla pietà filiale e dall’attenzione per le persone anziane. Questa tradizione era stata valorizzata, poi trascurata o addirittura combattuta, e oggi nuovamente valorizzata in chiave di etica filosofica.
Buona parte del convegno è stata dedicata – non a caso – ai problemi etici posti dal rapido invecchiamento della popolazione, dalla maggior durata della vita e dalla diminuzione delle persone in età giovanile. Che cosa può fare la società per rendere gli anziani più sereni e capaci di dare un loro contributo alla società? Come sostituire oggi il ruolo affettivo e di cura svolto dalle famiglie numerose di una volta?
Questo tema sembra essere più affrontato in Cina che in Europa forse proprio per il maggior peso esercitato dalla millenaria tradizione comunitaria contadina e confuciana. Altri temi scottanti di etica applicata come quello ecologico o quello della guerra e della pace sono pure molto sentiti e sono stati trattati ampiamente nelle varie relazioni spesso all’insegna di una concezione di matrice confuciana dell’armonia uomo-natura e di una rappacificazione che ha luogo innanzitutto all’interno del proprio io.
Più in generale è emerso che il dialogo culturale tra Oriente e Occidente è reso possibile non tanto dalle scienze e dalla tecnologia che l’Oriente ha appreso a un certo punto della sua storia recente dall’Occidente, ma dalla riscoperta di quella dimensione della saggezza pratica, fulcro di un’etica delle virtù, che l’Occidente sembra aver dimenticato proprio in nome della scienza e della libertà e che la Cina sente l’urgenza di riscoprire all’interno della propria tradizione.
Saggezza che in entrambi i mondi è bene condensata nella dinamica della regola d’oro: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. In qualche modo si tratterebbe di recuperare quel senso della misura e dell’armonia che accomuna la tradizione classica occidentale greca e romana a quella cinese e che in Cina sembrerebbe attenuare le nuove opposizioni “occidentali” di maschio-femmina, giovane-anziano, colto-incolto.
In questa riscoperta da parte della Cina della morale e della saggezza, le esperienze propriamente religiose di matrice ebraico-cristiana che hanno favorito in Occidente il senso forte della libertà individuale e reso possibile anche la negazione di Dio e, in certa misura, la stessa rivoluzione comunista cinese (pur reinterpretata in chiave nazionale), potrebbero svolgere un loro ruolo.
Ma sono più raramente riprese rispetto al confucianesimo valorizzato in chiave squisitamente etica e all’etica tout court, forse perché si sospetta e si teme la loro forza dirompente. Forza dirompente nel bene e anche, per reazione, nel male di cui in Occidente abbiamo sperimentato e sperimentiamo gli esiti.
Nel complesso queste occasioni di incontro e di scambio, in cui ci si conosce meglio, al di là delle barriere culturali, sono l’antidoto migliore al clima di conflitto che caratterizza questi nostri giorni. Come osservava Jeff McMahan nel suo intervento finale: se i popoli vengono tenuti separati, si sviluppano facilmente pregiudizi e ostilità che prima o poi sfociano nelle guerre.
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