Sebastião Salgado, morto venerdì 23 maggio a Parigi a 81 anni, non è un fotografo così facile da capire come si potrebbe pensare. Per comprendere qualcosa di lui bisogna uscire dall’Europa, e in un certo senso bisogna anche uscire dalla fotografia e avventurarsi nel cuore della cultura contemporanea, tra alta tecnologia, Darwin, scienze della natura e, soprattutto, antropologia.
Può aiutare (ri)guardare sul web i brani dello splendido docu-film che Wim Wenders gli aveva dedicato nel 2014, il cui titolo, Il sale della terra, era già molto chiaro: “Una cosa l’avevo capita di Salgado: a lui importava davvero degli esseri umani, e questo significava molto per me: dopotutto gli esseri umani sono il sale della terra” diceva il regista.
Quella fotografia nitida, levigata, se vogliamo un po’ oleografica, di alta qualità digitale eppure sorprendentemente fedele a un’estetica ormai desueta come il bianco-e-nero, quello stile patinato che identifica al primo sguardo le foto di Salgado è stato forse anche il modo con il quale lui ha cercato di distanziare di qualche centimetro lo spettatore dall’acchito urticante delle sue immagini raccolte fra i derelitti di ogni angolo del mondo, in reportage sempre autenticamente vissuti “sul campo”, lunghi, faticosi, meticolosi, sofferti.
Come quello, terrificante, sulla miniera d’oro di Serra Pelada in Brasile, il suo Paese (1986), con quei nuovi schiavi che portavano sulle spalle sacchi di terra pesanti decine di chili e che lui descrisse con la stessa politezza con cui Gustave Doré aveva disegnato le bolge dantesche arrostite dalle fiamme dell’Inferno.
O come il reportage del 1994, quando Salgado fu testimone, in Ruanda, dei genocidi speculari dei tutsi e degli hutu: 12/15mila morti al giorno, squartati a colpi di machete o caduti ai margini delle strade in preda alla malaria, sotto i suoi occhi.
Quel reportage estremo non lo aveva lasciato indenne. Per più di dieci anni Salgado non avrebbe fotografato: “Siamo animali molto feroci noi umani – commentava -, siamo animali terribili. Sia qui in Europa che in Africa o in America Latina, dappertutto: siamo di una violenza estrema. Quando me ne sono andato dal Ruanda non credevo più a niente, non poteva esserci salvezza per la specie umana, non si poteva sopravvivere a una cosa simile. Alla fine di quel percorso stavo male, la mia salute era a pezzi”.
Fu la Terra, dice Wenders, a guarire “la disperazione di Sebastião: la gioia di veder crescere di nuovo gli alberi, rinascere le fonti d’acqua, tutto questo fece sì che tornasse a sentirsi un fotografo”.
Ma sarebbe sbagliato prenderlo semplicemente come l’autore di epiche immagini che hanno saputo cavalcare, negli ultimi vent’anni, l’onda dell’ecologismo emotivo di cui siamo preda, o la sensibilità un po’ astratta di noi europei occidentali per il dramma delle migrazioni, o un certo primitivismo e animalismo che si incrocia con una cultura New Age. “Potevo realizzare – raccontava a proposito della svolta di Genesis, lo straordinario viaggio che lo avrebbe impegnato all’inizio degli anni duemila – un nuovo progetto fotografico legato all’ambiente. Naturalmente la prima idea mia e di mia moglie Lélia è stata quella di sollevare una denuncia contro la distruzione delle foreste, l’inquinamento degli oceani, queste cose… Ma poi poco a poco abbiamo cominciato a pensare a un progetto diverso: fare un omaggio al Pianeta. Con nostra sorpresa abbiamo scoperto che quasi la metà della Terra è ancora come nel giorno della Genesi”.
Non sempre è stato capito: “Molti amici mi hanno detto: ‘Sebastião hai sbagliato ad andare in questa direzione, tu sei conosciuto come un fotografo socialmente impegnato e ora ti avventuri nel campo dei fotografi di paesaggi, dei fotografi di animali’. Non importa, ho detto”, ed è partito per le Isole Galapagos, per riannodare il filo di un discorso molto più vasto: “Volevo capire quello che Darwin aveva capito. Le specie animali in ecosistemi molto diversi si sono evolute in modi molto diversi. Per otto anni ho osservato, e ho capito che l’iguana è anche lei mia parente. Ho capito che io sono parte della natura come una tartaruga, un albero, un sassolino…”.
L’Accademia delle Belle Arti francese lo aveva eletto tra i suoi membri nel 2016 come “grande testimone della condizione umana e dello stato del Pianeta”. Ma Salgado, che da decenni viveva a Parigi, si nutriva da un’altra radice. Non veniva dai Brassaï, dai Doisneau e dai Boubat che hanno fatto la storia del grande reportage umanistico francese. Era nato ad Aimorés, nel Minas Gerais, e in Brasile aveva studiato economia e statistica, a fare il fotografo da ragazzo non pensava; aveva lavorato nella pubblica amministrazione e per conto dell’Organizzazione internazionale del caffè. Poi sarebbe entrato nell’agenzia Gamma e, dal 1979, nella mitica Magnum, la crème della fotografia mondiale. Ha ricevuto riconoscimenti molto importanti come il premio Eugene W. Smith (1982), l’Erich Salomon (1988), la medaglia d’oro della Royal Photographic Society of Great Britain di Bath (1994).
Ma nelle sue fotografie c’era più Lévi-Strauss che Cartier-Bresson, da Sahel: l’uomo in ambasce (1986), reportage sugli effetti devastanti della siccità, ad Altre Americhe (1986), fino a Workers (in italiano La mano dell’uomo, 1993), un colossale progetto sull’essere umano e il suo lavoro, dai pozzi di petrolio del Golfo Persico alle miniere di zolfo indonesiane, realizzato in 6 anni attraverso 26 Paesi: una delle più importanti raccolte fotografiche del dopoguerra, che può essere accostata solo agli storici ritratti di August Sander, nella Germania degli anni 20 e 30 del Novecento.
Lasciata la Magnum nel 1994, Salgado ha fondato a Parigi una propria agenzia, la Amazonas Image. Ha lavorato su molti dei principali conflitti degli ultimi 25 anni, ma non si sentiva semplicemente un reporter. A metà degli anni 90 aveva rimesso la fotocamera nella borsa per dedicarsi a un progetto ambientale visionario presso l’hacienda di famiglia in Brasile: nella terra dei suoi padri avviò un’incredibile opera di riforestazione che lo porterà a piantare più di due milioni di alberi e a ricreare un ecosistema che stava scomparendo. Fino a quando, ispirato proprio da quella esperienza, si era lanciato appunto nel progetto Genesis, alla ricerca di quel mondo intatto che resiste alla forza distruttiva dell’uomo.
Gli amici della sua fondazione brasiliana “Terra”, nel giorno della sua scomparsa, ricordano “com imenso pesar” proprio questa sua apertura di orizzonti, la lezione di un uomo che “ha seminato speranza dove c’era devastazione e ha fatto fiorire l’idea che la salvaguardia dell’ambiente è anche un profondo gesto d’amore per l’umanità. Il suo obiettivo fotografico ha rivelato al mondo le proprie contraddizioni; la sua vita, il potere di un’azione che mira a cambiare le cose”.
Due anni fa Salgado venne a Milano con la moglie Lélia, portando con sé, alla Fabbrica del Vapore, la loro grande mostra Amazônia. Venne accolto con tutti gli onori a Palazzo Marino. Raccontò con passione i dieci anni, non pochi, che aveva richiesto quell’estremo viaggio di ritorno verso la Terra che lo aveva generato: “Per fare un lavoro del genere ci vuole un bel pezzo di vita: ho fatto 58 viaggi per mettere assieme questo reportage, ho vissuto con un certo numero di comunità indigene. Ma è difficile entrare, farsi accettare: deve passare del tempo”.
Rievocò, da vero antropologo, le grandi migrazioni dalle quali l’intero continente delle Americhe è stato generato: “Queste terre non avevano popolazione umana fino a 18/20mila anni fa. Entrarono dall’Asia durante l’ultima glaciazione, quando lo Stretto di Bering in cui si fronteggiano la propaggine più orientale della Siberia e quella più occidentale dell’Alaska era diventato un ponte, perché l’oceano si era ghiacciato. Piccoli gruppi allora misero piede per la prima volta in questo enorme territorio: ci hanno messo 2 o 3mila anni i loro discendenti per percorrerlo tutto, cacciando e pescando sono discesi per le Americhe prima lungo il Pacifico, fino all’estremità meridionale, la Terra del fuoco argentina, e da lì poi hanno iniziato a risalire la costa atlantica e sono arrivati un po’ dappertutto: una transumanza, dunque, avvenuta ben prima dell’arrivo dei colonizzatori europei, circa 500 anni fa. E proprio in Amazzonia i discendenti di quelle antiche comunità sono stati protetti”.
E ancora:
“È un territorio enorme, circa 9 milioni di chilometri quadrati, potrebbe essere il terzo paese del mondo per dimensioni. Là dentro, nella foresta, queste popolazioni che erano arrivate dall’Asia sono rimaste isolate e in un certo senso protette. Quelle che si trovavano più nelle zone esterne della foresta hanno avuto più contatti, e più stretti, con gli uomini arrivati dall’Europa, ma quelle che sono rimaste al centro dell’Amazzonia le conosciamo ancora molto poco. Si stima che solo in quella brasiliana ci siano 102 comunità che non hanno mai avuto nessun tipo di contatto con il mondo esterno. Dunque al cuore di questa regione del pianeta vive ancora la preistoria dell’umanità: noi qui viviamo nel XXI secolo, ma sulla Terra conviviamo con la nostra preistoria che è nascosta in Amazzonia. Dunque proteggere il suo ecosistema non significa solo difenderci dal riscaldamento globale, proteggere la più grande concentrazione di biodiversità del mondo: quello che stiamo cercando di salvare è un grande patrimonio culturale dell’umanità”.
Per questo Salgado non si era attardato a fotografare le ruspe che mangiano gli alberi a tonnellate ogni giorno, per fornire legname a prezzi bassi ai mobilifici di un’Europa cinica e complice: “In questa mia mostra non ho voluto mostrare l’Amazzonia distrutta o incendiata, no, ho fotografato un’Amazzonia pura, che è ancora la grande maggioranza, l’80% del suo territorio. Ho mostrato un’Amazzonia che potesse essere ancora guardata da noi per comprendere l’importanza, la necessità, la bellezza di quell’ecosistema”.
La denuncia viscerale finisce spesso per diventare una forma di protesta effimera, inefficace. La bellezza intravista da una coscienza umana, invece, nel tempo muove la storia.
Viene in mente quel libro che Eduardo Galeano scrisse nel 1990 accompagnando le “grafie di luce” di Sebastião Salgado, che si intitolava An Uncertain Grace, un fragile stato di grazia. “Noi siamo ciò che facciamo” diceva con grande realismo lo scrittore uruguayano, non ciò che proclamiamo: “E ciò che facciamo cambia ciò che siamo”.
Potrebbe essere una buona “fotografia” di Salgado.
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