La tratta ferroviaria Milano-Roma doveva essere il suo cruccio, come lo è ancora oggi per milioni di italiani. Preferiva viaggiare quasi sempre in treno. Solo raramente sceglieva un’auto da corsa o addirittura velivoli guidati personalmente. Memorabile a questo proposito la “querelle” intorno al suo ritorno a Roma nel novembre del 1922, per assumere l’incarico di primo ministro. Riuscì ad eludere ogni tentativo dello Stato – il prefetto, le autorità di polizia, gli altri partiti – di ricondurlo nella capitale sotto scorta.
M. Il figlio del secolo, lo straordinario libro di Antonio Scurati, pluripremiato, è ormai un testo fondamentale per la rilettura di un periodo cruciale della nostra storia, quei cinque anni che vanno dal 1919 alla fine del 1924 e che aprirono le porte al fascismo. Al di là delle pur numerose polemiche che ha sollevato, il libro di Scurati ricostruisce come nessuno aveva fatto fino ad oggi la psicologia di Mussolini. Lo osserva da dentro, nelle sue contraddizioni, nelle sue debolezze. Si attraversa l’Italia e cento città insieme a lui e ai suoi uomini e alle sue donne, tra cui molti protagonisti dimenticati.
Il libro si sviluppa come un diario, ma la natura del Mussolini politico si rivela soprattutto nei giorni decisivi del 1922 a cavallo tra il discorso di Napoli, da dove ebbe inizio formalmente la marcia su Roma, al momento in cui ricevette dalle mani del Re l’incarico a formare il governo.
È in quei giorni che Mussolini si gioca tutto come in una mano di poker. In grande solitudine, prendendo addirittura in giro i suoi più stretti collaboratori, a cominciare dal “quadrunvirato” esiliato a Perugia, vanificando ogni iniziativa dei suoi nemici esterni.
Scurati non aggiunge nulla all’abilità tattica dell’uomo, che in meno di tre anni era riuscito a conquistare il paese, ma ne esce rafforzata la sua scaltrezza. Erano a noi noti gli errori commessi dagli avversari, come la debolezza del Re, da cui tanti attesero invano per giorni la firma dello stato d’assedio. Si sapeva dell’inconsistenza delle forze che il fascismo era stato effettivamente in grado di mobilitare. Ma Scurati colloca tutti questi elementi nel giusto ordine – e prima che accadessero – nella mente di Mussolini. Egli era cosciente dei margini ridotti di successo: tutto sarebbe dipeso non solo dagli errori dei suoi avversari, ma dalla sequenza temporale in cui essi li avrebbero commessi. Ed è proprio in quella manciata di giorni che vanno dal 28 settembre al 7 ottobre del 1922 che si svela l’importanza di ciò che era accaduto prima, il ruolo di ciascun protagonista, il perché dei loro comportamenti futuri.
Il libro inizia con il racconto della vita di Benito Mussolini a Milano, a poche settimane dalla fine della guerra. È un uomo solo, poco più di un reietto. Un traditore. Il suo giornale è pieno di debiti, la notte attraversa a piedi la città, imbruttita dalla guerra e dalla miseria, circondato da poveracci disperati e violenti.
Milano e Margherita Sarfatti Grassini – Mussolini scrive, lavora, pensa, ama a Milano. È la sua città di adozione, la città che prima lo respinge, e poi lo incorona capo politico. Nel 1919 Milano è di sinistra, ha un sindaco socialista che si è distinto nell’opera di assistenza ai profughi in fuga dopo la catastrofe di Caporetto. Il sindaco Caldara è uno dei sindaci più amati d’Italia e riceverà, a guerra finita, il plauso degli alleati direttamente dal presidente statunitense Wilson, venuto ad omaggiarlo in una piazza Duomo gremita.
Mussolini sa che la guerra appena vinta non potrà che essere tradita. Un Paese nelle mani di una classe dirigente ormai vecchia e inadeguata, lascerà i più deboli, i combattenti, i mutilati, le vedove, gli orfani alla mercé degli arricchiti, coloro che la guerra non l’hanno fatta ma hanno trovato invece il modo di fare enormi profitti. Milano assiste ai primi passi del movimento fascista nella totale indifferenza. Lo ricorderà lo stesso Mussolini nel suo discorso in piazza Belgioioso dopo la nascita del primo governo fascista in seguito al trionfo elettorale del 6 aprile 1924.
Proprio in quella piazza, appena quattro anni prima, Mussolini aveva tenuto su un carro sgangherato un comizio per la fondazione del partito fascista davanti a qualche centinaio di sostenitori, per di più venuti da fuori, e le forze dell’ordine. In “questa piazza ormai sacra alla storia del fascismo, ci riunimmo in poche centinaia di fedeli che avevano il coraggio di sfidare la bestia”, ricorda dal balcone di uno dei più prestigiosi palazzi della città appena quattro anni dopo dimostrando così che “Milano celebra a passo di corsa il primo anno di governo fascista”.
Ma Milano è anche la sede del suo giornale, che continuerà a sostenere con i suoi scritti fino all’ultimo giorno, Milano è la città dove risiedono la sua famiglia e le sue amanti, a cominciare dalla più importante di tutti, Margherita Sarfatti.
Cosa sarebbe stato Mussolini senza l’elegante e colta donna veneziana, non è possibile stabilirlo. È lei che lo introduce nei salotti della città, che lo riveste da capo a piedi e che lo ricongiunge con il mondo della cultura e dell’arte. E Scurati ne parla con intelligenza e con tatto. Anche quando racconta la delusione e la malinconia delle sere trascorse ad attendere il suo amante – ormai capo del governo – in qualche hotel romano.
“È stata lei a dirozzare il bifolco, a rivestire il villano, a istruire l’autodidatta, a introdurre il figlio del fabbro nell’alta società (..) è stata lei a tenergli la mano nel suo palco alla Scala la sera in cui si è giocato il tutto per tutto”. Mussolini le è riconoscente, le ubbidisce, le è devoto e vicino sia quando piange il figlio morto in guerra, sia quando partecipa all’inaugurazione di una sua mostra, pochi giorni dopo la marcia su Roma.
Poi la delusione, le ore perse ad aspettare l’amante negli alberghi romani. E “come accade quasi sempre, anche in questo caso la grande storia della passione si sminuzza presto nella piccola cronaca dei poveri amanti”. Ma nei drammatici giorni che seguirono il delitto Matteotti la Sarfatti sostiene Mussolini, lo esorta a non abbandonare, gli ricorda di essere un “abile giocatore, perciò sai che molte partite, che sembrano perdute in partenza, finiscono col capovolgersi all’ultima mano”.
Gabriele D’Annunzio e il mito di Fiume – “L’acquisto a peso d’oro da parte dello Stato dei manoscritti del poeta, come sempre in precarie condizioni economiche, prima di una lunga serie di sovvenzioni, lo placa definitivamente” rivela Scurati parlando dei rapporti con D’Annunzio. Rapporti sempre difficilissimi. Sin dai tempi di Fiume. Tra il Vate e Mussolini si è sviluppata in quegli anni una sotterranea lotta per la leadership, uno scontro mai dichiarato a chi rappresentasse quel mondo di ex combattenti, mutilati e invalidi della grande guerra.
Del resto l’ultimo tentativo di fermare Mussolini fu fatto proprio cercando di coinvolgere D’Annunzio. Era l’unico uomo in grado di suscitare nell’Italia di quegli anni così confusi lo stesso sussulto nazionalistico. Ma anche quel tentativo alla fine fallì miseramente. E non poteva essere diversamente, visto che allo scrittore fu prospettato un governo con Giolitti, l’uomo che lo aveva cacciato da Fiume a colpi di cannone. “Che cosa ho in comune con l’uomo del cannone navale che tentò di uccidere a Fiume il mio pensiero invitto? Sono triste usque ad mortem. Di Roma non vedo che le cloache”.
Ferrara e Italo Balbo – Ma dopo Milano e Fiume vi è un’altra città che alla fine risulta avere un ruolo da protagonista in quegli anni, e questa è Ferrara. La battaglia sul campo il fascismo la vince nel Polesine, quella vasta area intorno al Delta del Po che arriva fino a Rovigo e Bologna, ma che ha Ferrara come epicentro. Sia perché fu il centro politico dello scontro armato più violento e sanguinoso tra fascisti e socialisti. Sia perché da lì giunsero i fascisti più astuti e combattivi, e tra questi Italo Balbo.
“Benito, ma la rivoluzione è stata fatta per te, o per tutti noi?”. Cosi si rivolge al duce Balbo all’indomani della nascita del Governo, di fronte allo scontento crescente tra le file dei capetti fascisti, messi da parte per far posto agli alleati dell’ultima ora e ai moderati.
Quando nel maggio del 1922 Balbo andò da Mussolini per proporgli il primo grande sciopero agrario del fascismo egli vide “nel sorriso diabolico di quel giovanotto alto, smilzo e forte … il passato e il futuro”.
Balbo è il leader fascista più emblematico di quei quattro anni. Giovane e arrogante, capeggia la nascita del fascismo nel Polesine, stringe l’alleanza con gli agrari ormai insofferenti allo strapotere dei socialisti, abbina alla violenza squadrista l’arguzia e la tattica politica.
Napoli e Benedetto Croce – Erano 7mila i napoletani assiepati nel Teatro San Carlo, che ne poteva ospitare seduti non più di mille. La mattina del 24 ottobre del 1922 ha inizio da quel teatro la “marcia su Roma”. Accolto dalla fanfara che intona “Giovinezza”, Mussolini annuncia minaccioso che “noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio”. È a questo punto che Benedetto Croce, nell’intento di rassicurare Fortunato, con un sorriso di sufficienza, gli sussurra “ma don Giustino, vi siete scordato quello che dice Marx? La violenza è la levatrice della storia”. E al perplesso Luigi Russo che lo giudica un commediante, aggiunge “Quel Mussolini è un bravo istrione”.
Ma è fuori dal teatro, alle oltre 20mila camicie nere assiepate tra piazza San Ferdinando e Piazza del Plebiscito che Mussolini riserva il suo discorso di incitamento. “Oggi senza colpo ferire abbiamo conquistata l’anima vibrante di Napoli, l’anima ardente di tutto il Mezzogiorno d’Italia”. In un sol colpo e a poche ore dalla vittoria, l’uomo del Nord che disponeva sotto Roma al massimo di qualche sparuto drappello di fascisti, ottiene l’adesione plebiscitaria di tutto il Sud.
Giacomo Matteotti e il Parlamento – “L’hai fatto ammazzare tu” gli chiede a bruciapelo Leandro Arpinati, l’amico romagnolo giunto a Roma per rincuorarlo. “No” risponde Mussolini. “Allora cosa c’entri? Punisci chi ha commesso questo stupido delitto e non ci pensare più”.
Matteotti è stato per quattro anni l’oppositore più tenace del fascismo. Giovane figlio della borghesia agraria del Polesine, aveva capito prima di altri la forza della violenza fascista. L’alleanza costruita con i padroni terrieri timorosi dell’avanzata socialista era ormai sfuggita di mano a tutti. Matteotti era molto bravo a far di conto: era il migliore a leggere i bilanci dello Stato e a capire dove si nascondevano i magheggi per far sparire i debiti di cui i conti pubblici erano pieni zeppi, ma era anche molto preciso nel resocontare ogni violenza fascista perpetrata sul territorio nazionale. E poi li elencava nei suoi discorsi – tra le urla dei fascisti – in interventi solitari alla Camera.
Scurati nelle pagine finali del libro riesce a rendere ancora una volta molto bene il clima assurdo in cui quell’omicidio venne commesso, nell’assenza di un Stato democratico e di diritto, e per mano di una banda di zotici energumeni, in grado di lasciare tracce ovunque e di ogni tipo.
Con il delitto Matteotti il tentativo di dare un volto umano al fascismo fallisce miseramente. Da quella piccola fossa vicino a Riano dove viene ritrovato il corpo martoriato del deputato socialista, il fascismo si scopre per quello che è, un movimento violento. Nel suo Dna c’è e ci sarà sempre solo violenza, odio, nessun rispetto per la persona. Svelata la vera natura del fascismo, Mussolini si vede costretto ad accantonare la falsa maschera del moderato e a dare inizio alla seconda ondata di violenze.
Finisce la finzione del fascismo che vuole la pacificazione nazionale, a cui hanno creduto il fior fiore di liberali ed intellettuali, e ha inizio per il paese un regime violento che sopravviverà solo grazie alla distruzione fisica dei suoi oppositori.
Le prime elezioni del dopoguerra si erano tenute il 16 novembre del 1919 e per le liste di Mussolini le cose erano andate malissimo. Lui stesso non risultò eletto. Dopo appena un anno e mezzo, nelle elezioni del 15 maggio del ’21 i Blocchi Nazionali raccolsero un considerevole 19,07% e 105 seggi. Ma nulla di più di un partito di opposizione. Quello che accadde il 6 aprile 1924 non aveva alcun precedente. La Lista Nazionale raccolse il 64,9% dei voti e la maggioranza assoluta con 374 seggi.
“Questa volta è l’ultima volta che si fanno elezioni. La prossima voterò io per tutti”, si sfoga così Mussolini con Cesare Rossi pochi giorni prima del voto, di fronte alle risse continue per la scelta dei suoi stessi candidati.
Fu di parola, e per oltre vent’anni la democrazia nel nostro paese sparì.