Di Simone Weil (1909-1943) si è detto e scritto molto. C’è chi ne adora l’impeto e la disperazione, e chi la disprezza, definendola “pazza”. Di sicuro c’è solo l’impossibilità di rimanere indifferenti di fronte ad un’umanità ingombrante, racchiusa, quasi ironicamente, in un corpo e in un’esistenza terribilmente fragili. Proprio questo è l’elemento che oggi, più dei singoli temi, ci occorre ricordare: la sua straordinaria umanità.
Una sensibilità che, quasi inevitabilmente, l’ha attirata negli angoli più bui della società e del suo tempo. Tra i miseri e gli sventurati che nelle sue pagine diventano, paradossalmente, protagonisti. L’inquietudine che la porta a rifiutare qualsiasi “sistema”, filosofico o partitico che sia, le fa volgere lo sguardo dove altri non avrebbero guardato: nell’ombra della sofferenza, nella condizione degli ultimi e delle vittime. “La santa degli esclusi”, sembra l’abbia definita André Gide.
In una sua lettera a Georges Bernanos è la stessa Weil a raccontare come questo sentimento l’abbia accompagnata fin dall’infanzia: “Ancora bambina, qualunque cosa leggessi o sentissi, mi mettevo sempre, istintivamente, più per sdegno che per pietà, al posto di quanti erano vittime d’oppressione”. Ed è seguendo questa inclinazione che, mentre insegna filosofia, Weil devolve il suo stipendio agli operai in sciopero e si avvicina alle lotte sindacali dei minatori della Loira. Fino alla decisione di lasciare tutto ed entrare in fabbrica per potersi immedesimare completamente nella condizione dei lavoratori sfruttati.
La riflessione sulle cause dell’oppressione si unisce, nella vita di Simone Weil, all’osservazione della storia e del suo tempo. Nelle pagine di L’Iliade o il poema della forza si sofferma sugli sventurati, sulle vittime della guerra, su chi perde la propria umanità a causa della necessità che governa il mondo. “Il centro dell’Iliade è la forza” scrive Simone Weil e, a pensarci bene, è lo stesso Omero a suggerirlo: il proemio dell’opera si apre richiamando l’ira di Achille. La violenza è il motore dell’azione umana. La genialità di Omero sta nel racconto lucido della forza, del suo mortifero gioco che domina la storia.
La forza cambia continuamente schieramento, non parteggia per nessuno se non per sé stessa. Nel poema, infatti, vediamo come nessun personaggio sia statico, anche gli eroi vengono mostrati sconfitti in qualche momento, la loro sorte cambia continuamente. La forza è la violenza cieca che disumanizza, che riduce l’uomo a mero corpo, a oggetto. È la necessità gelida, indifferente alle distinzioni sociali tra ricchi e poveri, in grado di annientare ogni anelito umano. È il terrore paralizzante dei soldati sul campo di battaglia. La guerra è il momento di massima espressione del suo dominio. Ogni velleità umana, ogni volontà di potere sono meri strumenti che portano al suo stesso proliferare.
Non è un caso che questo breve saggio sia stato scritto mentre il dominio nazifascista si stava avanzando in Europa. La storia del Novecento è lo sfondo in cui nasce questa riflessione. Simone Weil guarda allo spirito tragico dei greci per trovare le chiavi di lettura del suo presente. L’avanzare della guerra e la conseguente fuga da Parigi della famiglia di Simone, di origini ebraiche, non fanno altro che rafforzare l’angoscia dell’autrice che, nonostante tutto, continuerà a scrivere immaginando il futuro e la ricostruzione dell’Europa.
Nel poema omerico, infatti, il dominio della forza non è assoluto. Esistono, seppure brevi, alcuni momenti in cui la dinamica della guerra si spezza, lasciando spazio all’umanità dei personaggi. Nell’Iliade sono raccontate “quasi tutte le forme pure dell’amore tra gli uomini” (S. Weil): l’amore coniugale tra Ettore e Andromaca, l’ospitalità, l’amicizia tra i compagni d’arme, l’amore materno, fino alla forma più alta, l’abbraccio tra Priamo e Achille. Due nemici che si incontrano, si riconoscono e si commuovono per la caducità della comune condizione umana. In questi “momenti di grazia” il ritmo della narrazione si spezza e il linguaggio cambia. Tutto è ammantato di poesia.
Negli scritti dello stesso periodo, Weil riprende anche le figure di Antigone e di Francesco d’Assisi. Due storie di “folli” che sfuggono ai canoni sociali e alla comprensione razionale, perché il loro agire non risponde alla dinamica del mondo. Una donna e un uomo proiettati in una dimensione trascendente che, per Simone Weil, è l’origine di quegli stessi “momenti di grazia” raccontati nell’Iliade. Due figure che fanno da ponte tra la logica violenta del potere e quella soprannaturale dello spirito, che per questo possono trasmettere agli altri quella logica d’amore che spezza il ritmo della guerra.
Questa “follia d’amore” è la direzione verso cui Simone Weil ha orientato la sua breve esistenza. Una vita che viene prima del pensiero, che si sottrae alle convenzioni sociali e che afferma ostinatamente una logica dell’amore piuttosto che una volontà di dominio.
In un momento in cui i nostri occhi rischiano di soffermarsi sul gioco meschino dei potenti del mondo, l’invito di Weil è quello di volgere lo sguardo altrove: a quei momenti di grazia che non cancellano la necessità, ma le impongono un argine. A guardare oltre la forza, ad amare a costo di essere chiamati “folli”, ad affermare l’altro anche quando tutto imporrebbe di dividersi perché “gli sventurati non hanno bisogno d’altro, a questo mondo, che di uomini capaci di prestar loro attenzione” (Simone Weil).
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