“In tutta la mia infanzia, adolescenza e giovinezza – diceva ancora nel ’95 Fulvio Tomizza – ho dovuto sempre misurarmi con questa frontiera che ci divideva, divideva Trieste dall’Istria, certi istriani da altri istriani”, ma che lui desiderava superare, un po’ come gli uomini politici prima citati, non a caso anch’essi uomini di frontiera (Schuman, nato e vissuto in Alsazia, regione di confine a lungo contesa tra Francia e Germania; Adenauer, tedesco della Renania settentrionale-Vestfalia confinante con la citata francese Alsazia; De Gasperi, parlamentare trentino, prima in Austria, poi in Italia, pacificatore tra i confinanti Alto Adige-Sud Tirolo italiano e Tirolo austriaco; Spaack, fiammingo, nel Belgio unito, ma diviso tra Fiandre e Vallonia), i quali sognavano di costruire una nuova Europa, politica e confederale, che oggi non soltanto non c’è, ma neppure si sogna più.
Al sogno di un destino comune dell’Europa, Tomizza è rimasto attaccato tutta la vita, nonostante pochi anni dopo l’uscita di Materada, ancora l’Espresso, e chi gli stava dietro, abbia scritto: “Basta, è ora di finirla con questa patetica storia istriana!”, con “righe vergognose su persone di Rovigno, di Zara e di altre città dell’Istria e della Dalmazia finite in Italia e in zone lontane da essa”, come ricordava lui stesso. E così l’Unità che fino ad allora recensiva libri che parlavano di sfruttamenti, di povera gente, avvenuta per colpa dei fascisti, dei latifondisti e via dicendo, non si raccapezzava di fronte a un libro dove si scriveva di spartizione, miseria, esodi, di gente colpita dal comunismo reale, che diventava il fine da raggiungere e da cui fuggiva.
Certo, il giornale comunista non poteva affermare che era un libro di propaganda, ma nemmeno, quale era e resta, “un libro di poesia, se mi permette, e come tale fu recepito dai lettori: avevo messo in imbarazzo sicuramente più di una persona”, affermava Tomizza, il quale così proseguiva: “L’Istria, dopo tanti secoli di ostilità, di conflitti tra i gruppi sloveno, croato e italiano che si sono odiati per sempre, perché sembrava che dove stava uno non potesse stare l’altro, certamente ha capito che con questi odi e questi conflitti non ha fatto altro che fare del male a se stessa, fino ad arrivare alla spaccatura, all’esodo, alla gente sparsa per il mondo in tutti i continenti”.
Tomizza ha vissuto l’esodo dei profughi istriani negli anni dal ’54 in poi, notando come questo fenomeno massiccio, che ha interessato, per quanto riguarda l’Italia, 350mila persone accomodate nel nostro Paese, sia stato vissuto dai nostri connazionali, che non avevano conosciuto la loro storia, in una maniera, come dire, un po’ antagonista. E se in Materada, ma anche negli altri due libri della Trilogia, Tomizza ha cercato di interpretare tutti i sentimenti e tutte le reazioni di una popolazione che aveva vissuto il dramma di restare o andar via, nello stesso tempo è toccato a lui far sparire i contrasti, attutire o non rispondere a certi atteggiamenti. “Se uno vuole tornare in Istria (e Tomizza è tornato lì, ha riacquistato la casa di Giurizzani, diventata il suo buen retiro, il rifugio dove ha scritto quasi tutti gli altri libri) – affermava lo scrittore – deve cercare di creare un atteggiamento favorevole. Tutto va fatto attraverso un lavoro di adattamento, di comprensione, di benevolenza e simpatia reciproco; soltanto così si ottiene qualcosa. Andare là, sentire ed alimentare un contrasto perpetuo, diuturno, non porterà mai pace, per cui uno è meglio che stia dove sta. Non serve andare in un mondo dove non si è accettati”.
Questa tensione all’unità, dunque alla costruzione di una nuova Europa, si può leggere anche in molti suoi romanzi successivi alla Trilogia, anche se i temi di fondo erano, ad esempio, l’amore e la ricerca del senso della vita, proiettando Tomizza verso le successive prove con una grande consapevolezza dei propri mezzi e senza l’assillo di nuovi approcci tematici.
Si diceva dell’amore, un tema importante non solo per il Tomizza uomo, ma per il Tomizza scrittore. E non soltanto l’amore “generico” per le donne, o l’amore per la figura femminile tout court, intesa quale “strumento” per riconciliarsi con sé stesso e con la sua terra, ma anche quale “mezzo” per rinascere realmente e concretamente quale persona in una nuova terra, quella italiana, e in una nuova città, Trieste. L’amore, dunque, quale completamento di sé, quale esperienza di pienezza per la sua umanità, nel rispetto della legge di natura e della sua vocazione all’amore coniugale e, di conseguenza, familiare, è per Tomizza un punto fermo anche nella scrittura, alla cui maturità perviene dopo un percorso umano e di scrittore non facile, che si conclude nella scoperta che esso è una donazione reciproca.
Per quando riguarda, infine, il senso della vita, che in Tomizza coincide con la religiosità naturale, l’autore ne scrive più volte in prima persona. Forse è la sua più alta preghiera di uomo, figlio, marito, padre e scrittore, contenuta nel suo libro postumo La casa col mandorlo, quello meno letto. “Una preghiera, una preghiera-sogno, un sogno? Sicuramente un dono, tanto bello, quanto inaspettato”, scriveva Luca Pezzi nel citato convegno del decennale della sua scomparsa. Di entrambi questi temi, se potremo, scriveremo in altra occasione.
(2 – fine)
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