Jack Lang, ministro della cultura di Mitterrand, ha lasciato ampie tracce del suo operato. Tra le altre cose, a lui si deve la promulgazione di una legge sul commercio del libro, nota appunto come Legge Lang. Scopo della legge, divenuta riferimento irrinunciabile per qualunque discorso sul commercio del libro, quasi una riedizione della storica Lettre historique et politique adressée à un magistrat sur le commerce de la librairie di Diderot, era difendere la filiera tradizionale, le piccole e grandi librerie francesi, dall’offensiva della grande distribuzione organizzata. Ciò attraverso l’imposizione di un limite massimo allo sconto, stabilito nel 5% del prezzo di copertina.
Naturalmente, la legge fu ferocemente avversata dai fautori di un liberismo senza se e senza ma. Famose le invettive di Leclerc, proprietario della maggiore catena di supermercati d’oltralpe, il quale, peraltro, qualche tempo dopo ammise di essersi sbagliato, riconobbe che il libro ha una sua specificità e che “non può essere trattato come una scatoletta di tonno o un barattolo di pomodori”.
Naturalmente, anni dopo il tema divenne di attualità anche nel nostro Paese. Nel 2011, con uno scarto di soli trent’anni, si giunse all’approvazione della Legge Levi. Altrettanto naturalmente, per non scontentare nessuno, lo sconto massimo fu fissato in un bizzarro 15%, quando, all’epoca, i supermercati italiani giungevano a praticare anche sconti del 40!
Suona quindi curioso, molto curioso, il fatto che Ricardo Franco Levi, nella sua attuale veste di presidente dell’Associazione italiana editori, critichi pesantemente la nuova legge, recentemente approvata quasi all’unanimità dal Parlamento, che porta lo sconto massimo dal 15 al 5%, e ci allinea quindi (quasi quarant’anni dopo!) alla legislazione d’oltralpe. Levi (forse immemore?) giunge a sostenere che “questa legge peserà sulle tasche delle famiglie e dei consumatori per 75 milioni di euro, mettendo a rischio 2mila posti di lavoro”.
All’epoca di Lang, il mostro incombente da cui difendere la filiera tradizionale era la grande distribuzione organizzata. Oggi, da noi, pressoché estinto il libro nei supermercati, il nemico viene individuato nell’e-commerce e, nello specifico, in Amazon.
Certo, Amazon è in costante, dirompente crescita e sottrae costantemente quote di mercato alla concorrenza. Ma è una crescita basata principalmente sulla “coda lunga” (Anderson, 2004), assolutamente non perseguibile, se non in minima misura, dalle librerie tradizionali, e sugli spazi lasciati aperti dalle politiche gestionali delle principali catene librarie i cui gestori, con straordinaria miopia, hanno pensato di ottimizzare la redditività riducendo assortimento e qualità del servizio e così aprendo sconfinate praterie ad Amazon.
Tutto bene, quindi?
Se si vuole esaminare in modo non superficiale il tema, occorre inquadrarlo nelle dinamiche politiche che hanno caratterizzato gli scorsi decenni. Mi riferisco in particolare agli interventi dell’Antitrust targato Amato che pose fine agli accordi intercategoriali, considerati contrari alla concorrenza e quindi negativi per i consumatori, vigenti tra associazione editori e associazione librai. La fine forzata di quegli accordi, che regolamentavano in modo non cogente gli sconti alle librerie, accelerò, scatenò la corsa all’incremento degli sconti pretesi da parte di pochi operatori dominanti, in genere catene di sigla editoriale, integrate verticalmente, a danno degli operatori indipendenti.
La cosa curiosa è che l’Antitrust si guardò bene dall’intervenire su analoghi accordi, vigenti nel settore dell’editoria periodica. Due pesi e due misure.
Oggi, se si vuole davvero difendere la filiera tradizionale e, con essa, le librerie indipendenti, veicolo e baluardo di libertà di espressione, non certo garantita dall’oligopsonio delle catene integrate verticalmente, è su questo tratto della filiera che occorre ragionare; è qui che occorre agire, non sullo sconto finale.
Al momento presente, infatti, la riduzione dello sconto massimo ha un unico avvantaggiato: l’oligopsonio, che si vede incrementati per legge i propri margini di un sonoro 20-25%.
P.S.: ovviamente, i liberisti duri e puri sono subito intervenuti con superficiali economicismi degni di migliore causa. Valga per tutti l’articolo di Sileoni e Stagnaro pubblicato da IBL. A tutti loro, consiglierei la lettura delle pagine dedicate al commercio del libro di un vecchio, splendido libretto di Mario Deaglio, dal titolo Liberista? Liberale: un progetto per l’Italia del duemila.