391 su 420: provate a centrare un bersaglio di 1,5 millimetri da 50 metri per 93 volte su cento, per di più sdraiati – o, peggio, in piedi – dopo aver percorso qualche chilometro sci ai piedi e carabina calibro 22 da 5 chilogrammi sulle spalle. In gara, naturalmente, cioè con il cronometro che è il vostro peggior nemico. Eppure, la storia di Lisa Vittozzi da Pieve di Cadore, patria di Tiziano Vecellio, 3.600 anime nelle Dolomiti bellunesi, non è solo questione di numeri. Se domenica scorsa ha conquistato (nel disinteresse generale dei mass media) la Coppa del Mondo di biathlon sulle nevi di Canomre, in Canada, respingendo gli assalti di norvegesi, francesi e tedesche, lo deve anche ad una tenacia umana fuori dal normale.
Il 21 marzo 2019 aveva toccato il fondo di una carriera che a soli 24 anni aveva promesso di esplodere insieme alla primavera: sull’anello di Oslo-Holmehkollen, tempio mondiale degli sci stretti, si era presentata a fine stagione da leader della classifica generale, sbagliando però 5 bersagli su 10, accumulando secondi su secondi sulla neve e tagliando il traguardo 68esima: addio alla Coppa, finita nelle mani di una splendida Dorothea Wierer. Il pugno nello stomaco acuito dal modo in cui era venuta la sconfitta e cioè più per demerito proprio che per bravura altrui, cacciò Lisa in un baratro dal quale era difficile riemergere. Di punto in bianco pareva che la cadorina non sapesse più sciare e, peggio, neppure sparare. Fine di una carriera che aveva promesso più di quanto era stata capace di mantenere? Dalle montagne orientali del Bel Paese che incoronarono le famose portatrici nella Grande Guerra e poi le icone dello sci di fondo come la pluricampionessa Manuela Di Centa, sono venute donne (e anche uomini, s’intende) dalla scorza dura come la roccia, abituate a soffrire guardando in faccia i dolori della vita, non immuni da cadute ma capaci di rialzarsi più determinate di prima.
Femministe ante litteram, si potrebbe dire e senza tarli ideologici in testa. Così per Lisa, tra i cui hobbies preferiti (lo ha dichiarato in una recente intervista) c’è spaccare la legna. Nientemeno. Corporatura esile e occhi chiari, tipica bellezza nordica tutta italiana, non ci crederebbe chi non la conosce. Eppure, dopo tre anni (in campo sportivo a questi livelli un’eternità, mentre la Wierer infilava la seconda Coppa di Cristallo, prima italiana a raggiungere questo traguardo) il vento cambiò con un nuovo allenatore, la ciliegina sulla torta di una fiducia nel destino che in lei non era mai venuta meno: terzo posto nella generale e due medaglie ai Mondiali prima della definitiva rinascita. Così, dopo 4 medaglie il mese scorso ai Mondiali in Slovenia (di cui una d’oro nell’individuale, il suo format preferito, che si aggiungono alle 8 dei Mondiali precedenti, anno 2018, per un totale di 44 podi e 4 coppe di specialità) è venuta la vittoria sfuggita ormai cinque anni prima.
Disciplina durissima, il biathlon, la somma di sci e di tiro capace di mandare in estasi i tifosi d’Oltralpe, che vive (come lo sci nordico, suo fratello quasi gemello) solo quattro mesi l’anno, la metà di quelli necessari ad allenarsi perlopiù a secco in palestra o nei boschi ancora non ammantati di neve. Disciplina di solitudini, silenzi e fatiche che porta con sé il ricordo di nostri antenati in bilico sopra due strisce di legno di betulla, cacciatori di prede ai piedi delle montagne, e degli alpini nella Guerra Bianca. Infine, disciplina lontana dai riflettori massmediatici che – almeno in Italia – sono diventati semplice cassa di risonanza danarosa degli sponsor legati al calcio, in primo luogo, poi a motori e, a seconda del momento, di sci alpino e tennis. Con la Rai e i giornaloni (o presunti tali), sportivi compresi, schiavi di una informazione a senso unico. Grande Lisa come grande Tiziano: le auguriamo altre pennellate di azzurro sopra il bianco immacolato della neve. Le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 son pronte a fare da cornice.
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