Se è vero che in Italia chiunque si svegli con la voglia di scrivere un romanzo punti al giallo o al noir, va riconosciuto a Donato Carrisi di avere costruito un universo letterario tra i più ambiziosi e originali del panorama europeo, con tanto di endorsement di maestri come Ken Follett. Un universo che sta diventando anche cinematografico: dopo il successo de La ragazza della nebbia, Carrisi prende in mano anche un altro suo romanzo, L’uomo del labirinto, e torna dietro la machina da presa per tramutarlo in film.
Al centro del racconto c’è il rapimento di una ragazza e il suo ritrovamento, 15 anni dopo. Mentre la polizia sta dando la caccia al rapitore, un detective privato (Toni Servillo) che anni prima aveva accettato il caso della sparizione della ragazza, torna a occuparsi del caso, mentre un Profiler (Dustin Hoffman) lavora con la vittima per cercare di ricostruire quegli anni e dare un volto al maniaco. Puro thriller in stile Usa anche sulla carta, virato verso l’horror da autori come James Patterson, Thomas Harris o Jeffrey Deaver, L’uomo del labirinto pesca a piene mani dall’immaginario nero americano per realizzare un mind-game di una certa ambizione produttiva e narrativa.
Carrisi, anche sceneggiatore, conosce perfettamente il proprio terreno di caccia e la passione del pubblico contemporaneo per rompicapi, giochi mentali ed escape room, strizza decine di occhi per realizzare un film che vada oltre gli steccati di generi, che li superi con un meccanismo narrativo tanto complicato quanto semplice, in cui il mistero verte più sulla sorpresa che sulla suspense, sul colpo di scena più che sull’intelletto.
Anche dal punto di vista cinematografico, Carrisi cerca di superare la compostezza noir del primo film e si lancia in un pastiche arrischiato e forse folle di mitologia dantesca, soprannaturale, viaggi nella mente dell’assassino, fiaba, orrore, gotico sudista e isteria decorativa.
Il risultato è un film compiaciuto di confondere lo spettatore, che si disinteressa di inciampare di continuo in e stesso, che non funziona come ingranaggio, ma che cerca una via inusuale anche al cinema di genere nostrano (almeno quello contemporaneo): anti-naturalistico – come la fotografia di Federico Masiero e le scene di Tonino Zera -, anacronistico eppure pienamente di tendenza, barocco e sgangherato, ma a suo modo vitale e imprevisto.
Un rischio che in nome del successo del suo autore è calcolato, ma che comunque rappresenta un’idea di cinema da difendere anche dove sia maldestra. O forse proprio perché così maldestra.