L’ex patron di Borsalino nei guai per bancarotta fraudolenta. Conosciuto per l’azienda di cappelli di lusso ora passata in altre mani, Marco Marenco è finito nel mirino di un’inchiesta per la quale la procura di Asti ha denunciato 51 persone e sequestrato beni per 107 milioni di euro. La bancarotta, seconda solo al crac Parmalat, è stata costruita con l’import-export di gas naturale. In questa vicenda non mancano neppure spie russe tra i collaboratori e telefoni criptati per depistare gli investigatori. Alla fine l’accusa è di truffa aggravata, appropriazione indebita, false comunicazioni sociali e bancarotta aggravata. L’inchiesta dei pm Alberto Perduca e Luigi Tarditi, che hanno in mano il fascicolo dal 2016, è monumentale. Hanno ricostruito la rete di società su cui Marco Marenco ha costruito un crac di oltre 4 miliardi di euro, distraendo denaro per un miliardo e 130 milioni di euro. Le intercettazioni telefoniche ad un certo punto si sono interrotte bruscamente, forse per l’adozione di cellulari criptati. Gli inquirenti hanno faticato a star dietro alle operazioni frenetiche del bancarottiere record, ma l’inchiesta ha fatto luce su una “galassia” di almeno 190 società, a volte schermate da aziende offshore con sede in “paradisi fiscali”.
MARENCO, EX PATRON BORSALINO: CRAC DA 4 MILIARDI
L’obiettivo di Marco Marenco, stando a quanto riportato da Repubblica, era di distrarre e nascondere somme, partecipazioni e bene aziendali per conservare un impero di imprese che facevano da schermo, dietro a cui comunque c’era sempre lui. Le attività più importanti si spostavano sotto il diretto controllo dell’imprenditore astigiano. Dalle indagini è emerso che il denaro, le partecipazioni e i beni sottratti erano usati in operazioni interne al gruppo e poi trasferiti all’estero con compravendite fittizie. Nel frattempo le attività esercitate dalle società, indebitate o fallite, erano proseguite da nuove aziende, costituite appositamente e intestate a persone vicine all’imprenditore. Si trattava di “scialuppe di salvataggio”, che erano a loro volta controllate da società estere che componevano il complesso sistema di frode. Per meglio intenderlo, basta pensare alle “scatole cinesi”. Tra gli indagati ci sono anche pubblici ufficiali che garantivano a Marco Marenco, e ai suoi familiari, servizi di sicurezza e notizie sull’andamento delle indagini.