MATT BERNINGER/ “Serpentine Prison”: come i National, più dei National

- Paolo Vites

Esce il primo disco solista di Matt Berninger, voce, frontman, e autore dei National, si intitola Serpentine Prison

Matt Berninger 03 PhotoCredit Chantal Anderson 640x300 Matt Berninger, foto di Chantal Anderson

Un tizio in un bar canticchia sulla melodia di una ballata country proveniente dal jukebox. La sua voce è triste, ancor più triste di quella che esce dal jukebox. E’ un uomo che ha vissuto una vita difficile, si direbbe. Malinconia, ricordi, dolori si accumulano mentre le luci del locale vanno spegnendosi. Esce, torna verso casa, se una casa ce l’ha. In sottofondo parte una bellissima ballata al pianoforte, una sorta di Randy Newman che non ricorda più chi è, ma il marchio di fabbrica è quello: National senza chitarre elettriche e il suono poderoso di batteria. E’ il primo disco solista di Matt Berninger, leader, autore principale e voce del fantastico gruppo americano, il meglio insieme ai Wilco del rock a stelle e strisce degli ultimi vent’anni. Non c’è da scandalizzarsi se il suo primo lavoro solista porta forte il marchio di fabbrica del suo gruppo anche se siamo distanti da quel capolavoro che è stato l’ultimo disco della band, un aspetto innovativo e ricco di soluzioni sonore che sembrava aver aperto un nuovo universo per il gruppo originario di Brooklyn.

Benché la produzione sia affidata a un mago del R&B e del funk anni 60 e 70, il leggendario tastierista Booker T. Jones, il disco suona ridotto ai minimi termini, un sound leggero e soffice, vagamente jazz, in altri momenti quasi country e folk, in altri ancora orchestrale e ricco di sfumature. Sussurrato come solo lui sa fare, con quel narrare e declamare che lo hanno reso un interprete unico.

Dicevamo di quel brano pianistico (che poi si allarga a fiati declamanti) che è Take me out of town, il pezzo più bello del disco e una delle cose più belle uscite da casa National. Una melodia superba, il senso di sperdutezza, il crescendo che allarga all’infinito sottolineato da fiati che sembrano uscire da una marcia funebre da qualche parte a New Orleans. Siamo dalle parti del capolavoro England: ““Swear to God I’ve never been so burned out, I’m going to lose it, any minute.”

Un disco che suonerà familiare e piacevole ai fan della band di Berninger, soprattutto il sound viscerale e poco elaborato dei primi album. Serpentine Prison, prodotto dal polistrumentista di Memphis Booker T. Jones, esce su Book’s Records, una nuova etichetta formata da Berninger e Jones in collaborazione con la Concord Records. L’album vede la partecipazione di molti artisti tra cui Matt Barrick (The Walkmen, Jonathan Fire*Eater), Andrew Bird, Mike Brewer, Hayden Desser, Scott Devendorf (The National), Gail Ann Dorsey (David Bowie, Lenny Kravitz), Booker T. Jones, Teddy Jones, Brent Knopf (EL VY, Menomena), Ben Lanz (The National, Beirut), Walter Martin (The Walkmen, Jonathan Fire*Eater), Sean O’Brien, Mickey Raphael (Willie Nelson), Kyle Resnick (The National, Beirut), Matt Sheehy (EL VY, Lost Lander) e Harrison Whitford (Phoebe Bridgers). Alla produzione ha collaborato anche Sean O’Brien.

La traccia di apertura dice già tutto del contenuto, My eyes are t-shirts,  voce sempre più sofferente su delicata base pianistica e le tastiere in sottofondo quasi irriconoscibili, la struttura del brano è tipicamente National, con quello stile narrativo qui ancor più esaltatante: “Come back baby make me feel better”.

Con una chitarra folk strumming si apre invece Distant Axis, brano vagamente folkie, molto intimo come sempre, suoni di chitarra elettrica in lontananza, poi entra la batteria fragorosa, effetti sonici e il pezzo si allarga in colorature sontuose.

Ancora chitarra acustica in One more second qua arpeggiata in modo minimale: “Last time we were together… give me a little bit time and I’ll be fine”. Matt Berlinger è un uomo che prega, sempre, che le relazioni non finiscano e se devono finire, che sia impossibile dimenticarsene. Restano nelle vene, sotto pelle, a volte fanno male, come cicatrici sempre aperte. Poi le tastiere di Booker T.  che si elevano, e un bel ritornello a due voci.

Collar of your shirt con violoncello e le magiche tastiere di Booker T. regalano un’altra delle più belle composizioni di  Matt Berninger, quasi una delicata preghiera che si alza in una chiesa abbandonata p mi un sobborgo, un magazzino, un edificio che sta crollando. E’ tutto molto cinematografico. Magia pura. In Loved so little (come in altri brani) appare una vecchia conoscenza, nota a tutti coloro che amano Willie Nelson, il suo armonicista Mickey Raphael che in lontananza lancia strali di dolorosa malinconia. In sottofondo percussioni incalzanti e un bellissimo intervento di violino folk mentre Booker T. instancabile lavora ai fianchi il pezzo con il suo tocco magico. Silver springs è l’unico brano che si distacca dallo stile classicamente National, un duetto stile anni 40, di grande eleganza. C’è da perdersi tra queste oscure ballate che lasciano sempre aperto un filo di luce.

Un disco di una bellezza intensa, che si chiude con la title track l’ennesima ballata piena di tristezza apparente, colorata con fiati soul che le danno una marcia e una forza che stende l’ascoltatore. Quanta bellezza. Il brano Serpentine Prison è stato scritto nel dicembre 2018, una settimana dopo aver registrato I Am Easy To Find con The National” dice Berninger. “Per molto tempo ho scritto brani per film e musical e altri progetti dove dovevo entrare nella testa di qualcun altro per trasmettere i sentimenti di un’altra persona. Mi piaceva farlo, ma ero pronto a scavare nella mia e questa è la prima cosa che è venuta fuori” dice. Berninger continua, “Il titolo si ispira ad un tubo di scarico serpeggiante che sfocia nell’oceano vicino all’aeroporto di Los Angeles. C’è una rete di protezione sul tubo per impedire alle persone di arrampicarsi verso il mare. Ho lavorato al brano con Sean O’Brien e Harrison Whitford e l’ho registrato sei mesi dopo con Booker T. Jones alla produzione. Sembra un epilogo, quindi ho chiamato l’album come il brano e l’ho messo per ultimo”.

Sembra un epilogo. Ma noi abbiamo troppo bisogno di quest’uomo che canta per noi, delle nostre disfatte, delle nostre rivincite. Perché è dalle crepe che passa la luce. E’ un uomo tormentato, come chiunque sia cresciuto cattolico in una realtà dove la fede è peccato, punizione, vergogna. Ma lo è rimasto, come ha detto in una intervista a La Repubblica grazie a due sacerdoti della sua parrocchia che gli fecero conoscere Nick Cave: “A 9 anni non sapevo cosa fosse un ebreo. A Cincinnati tutto quello che avevo erano quella chiesa, quella croce, quegli affreschi, quel trentenne hippie in mutande sull’altare, col sangue che cola sulla punta delle unghie e gli occhi fissi su di me. Come dire: ‘Matt, se sono morto, è tutta colpa tua’. Sono cresciuto con un gran senso del grottesco. Mi odiavo quando mi masturbavo. Mi odio ancora! All’epoca Padre Mike e Padre Jack, i preti della comunità, mi hanno salvato la vita. Così progressisti, così aperti. Uno di loro un giorno sbotta e dice: ‘Hey! Non c’è solo Gesù, figliolo. Anche Nick Cave è un profeta, sai?’. Da quel momento, nei timpani ho fatto entrare il soul, Nina Simone, Leonard Cohen. Le parole cantate erano Sacre Scritture per me. Non so se esista il paradiso. So che esiste il rock and roll. E di rock, ora, abbiamo proprio bisogno”.

Matt Berninger è il Raymond Carver della sua generazione, con quella capacità di passare dall’epicità alle piccole banalità della quotidianità: “Total frustration, deterioration, nationalism, another moon mission, total submission, I’ve seen a vision, call an electrician”.





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