Un uomo travolto dall'onda emotiva collettiva: la cronaca diventa gogna prima del processo, e annulla ogni spazio per la verità.
C’è un tempo in cui il dolore chiede silenzio. Un tempo in cui l’urgenza non è l’opinione, ma l’ascolto. La cronaca, invece, accelera. E così accade che la morte di un uomo – Matteo Formenti, 37 anni, bagnino stimato a Chiari, nel Bresciano – diventi immediatamente oggetto di commento, ipotesi, ricostruzioni. Non c’è ancora l’esito delle indagini, ma già si stabiliscono le responsabilità. Non si conosce la sua versione, ma già si definisce il suo errore.
Matteo Formenti si è tolto la vita cinque giorni dopo l’annegamento di un bambino di quattro anni nella piscina dove prestava servizio. L’evento ha immediatamente aperto un fascicolo per omicidio colposo e ha scatenato una sequenza di reazioni a catena: indagini, articoli, commenti, voci.
Prima ancora di ricevere l’avviso di garanzia, previsto per il giorno in cui è scomparso, Formenti si è lasciato inghiottire dal bosco, dove il suo corpo è stato ritrovato privo di vita, con modalità che lasciano intuire un gesto lucido, dolorosamente premeditato.
La procura ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio, atto dovuto per poter disporre l’autopsia. Nessun elemento, al momento, lascia pensare a responsabilità di terzi.
Ma ciò che conta davvero, in questa vicenda, non è solo l’accertamento giudiziario: è ciò che ha preceduto il gesto, il clima che lo ha reso possibile, forse inevitabile. Il sindaco di Chiari, Gabriele Zotti, ha parlato senza mezzi termini di un “tribunale sommario” che si è attivato prima ancora che fosse chiarita la dinamica dei fatti e ha invitato la comunità a fermarsi, a riflettere.
Ma non si tratta solo di Chiari. È l’intero contesto culturale a essere messo sotto accusa da quanto è accaduto. In una società iperconnessa, l’accusa non nasce più da prove, ma da impressioni. Non dalla ricerca della verità, ma dalla velocità con cui si forma un’opinione pubblica che pretende giustizia istantanea e colpevoli immediati. È un riflesso quasi automatico: qualcosa succede e subito si formano giudizi, si condividono articoli, si cercano responsabilità. Poco importa che non si sappia nulla. Conta solo prendere posizione.
Il sospetto, oggi, è diventato un fatto sociale. E il sospetto condiviso – ha scritto Joseph Ratzinger – “diventa cultura, cioè sistema simbolico attraverso cui si giudica il reale”.
In questo sistema, l’innocenza non è più la condizione di partenza, ma un traguardo da conquistare. E chi non riesce a difendersi, chi non ha la forza o il tempo per spiegarsi, soccombe. Così la comunità – nata per custodire la fragilità dell’umano – diventa un’arena.
Il caso Formenti, allora, è lo specchio di un sistema più ampio: quello in cui ogni fragilità personale viene esposta pubblicamente senza filtri, in cui ogni voce non verificata diventa un verdetto. L’assenza di prossimità vera, l’evaporazione di rapporti reali, lascia l’individuo solo, schiacciato da dinamiche più grandi di lui. E in questa solitudine, ogni parola può ferire a fondo.
Charles Péguy, con il suo sguardo penetrante, diceva che “non ci si salva da soli, ma nemmeno ci si perde da soli”. C’è una responsabilità collettiva, diffusa, nell’alimentare il clima che circonda chi sta attraversando un momento drammatico. Una responsabilità che non si cancella con una condanna o con un’inchiesta formale: riguarda lo stile stesso con cui si vive, si parla, si partecipa.
Ma da dove nasce questa furia di giudizio? Forse dal bisogno di esorcizzare la propria debolezza. Giudicare l’altro – soprattutto se ha sbagliato o si pensa che l’abbia fatto – serve a dimenticare il proprio limite. Ma in questo gioco al massacro si perde qualcosa di essenziale: il volto della persona. E con esso, la possibilità di salvezza.
Luigi Giussani, parlando della misericordia, la definiva “l’espressione suprema della giustizia”: ciò che salva, perché coglie il fondo del cuore umano prima delle sue azioni. Questo sguardo, oggi, manca. Si preferisce una giustizia che punisce subito, che non attende, che non sopporta l’ambiguità della realtà. Ma senza misericordia ogni sistema collassa. E lo si vede ogni volta che la cronaca registra l’ennesimo suicidio di chi si è sentito solo, abbandonato, condannato in anticipo.
La vicenda di Chiari, dunque, non interroga solo chi ha parlato troppo in fretta, ma anche chi ha taciuto per paura, chi ha lasciato che le cose andassero nel verso sbagliato. Ogni volta che un uomo viene ferito da voci, sospetti, insinuazioni, anche chi è rimasto a guardare porta una parte di responsabilità.
Non si tratta di chiudere gli occhi sulla verità, né di negare il bisogno di giustizia. Ma di riconoscere che la giustizia autentica – quella che guarisce e non distrugge – ha bisogno di tempo, di ascolto, di delicatezza. In certi casi, perfino di silenzio.
Il suicidio di Matteo Formenti non è solo una tragedia personale: è un monito collettivo. Insegna che le parole, se non custodite, possono uccidere. Che ogni commento affrettato può diventare una lama. E che la verità, se non è accompagnata dall’amore, smette di essere umana.
Ciò che resta, ora, è la memoria. Ma non una memoria retorica, fatta di commemorazioni e di frasi di circostanza. Una memoria che cambia lo sguardo, che educa alla responsabilità. Perché ogni vita – anche quella più ferita – merita una possibilità. E ogni parola può essere, per chi ascolta, una carezza o un colpo. Dipende da chi parla. E da chi ascolta.
