MEDIA E POLITICA/ “Raiset” al test della fine del sovranismo tv
Con la sentenza della Corte di giustizia europea si mette di fatto fine a un sistema che in Italia aveva retto per molto tempo

Il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, è stato fin troppo burocratico nel ricordare che il Parlamento è chiamato a ratificare entro fine anno la nuova direttiva europea per le telecomunicazioni: che, quindi, un “tagliando” tecnico-normativo al Tusmar era già in cantiere prima che la Corte di Giustizia Ue strappasse la protezione anti-Vivendi stesa attorno a Mediaset dall’Agcom, in applicazione della “legge Gasparri”. Lo stesso rally del Biscione ieri in Piazza Affari (+5,75% in chiusura) non ha comunicato con pienezza l’effetto-annuncio giunto da Lussemburgo: che sembra andare molto al di là della rimessa in gioco di Vincent Bolloré sugli specifici tavoli Mediaset e Tim.
L’Europa ha avuto buon gioco a dar ragione al tycoon francese contro l’anziano e acciaccato Cavaliere italiano: verosimilmente inviso fuori d’Italia – al di là delle narrazioni mediatiche – proprio per il tentativo di creare Media for Europe. Cioè un polo europeo della tv generalista, con sede in Olanda, radici in Spagna e orizzonte di espansione in Germania e Austria (dove al momento la scalata a ProSiebenSat1 è tuttavia in stallo).
Il progetto è parso fin dall’inizio po’ troppo ambizioso per un vecchio premier italiano di centrodestra. eurotiepido, storico alleato della Lega, amico personale di Vladimir Putin, ecc.; e in perenne conflitto d’interesse con business mediatici e finanziari di rilievo internazionale. In breve: il tentativo di Berlusconi di “mettere in salvo” su scala multinazionale un gruppo fortemente legato alla sua figura di “patron” e a una regolamentazione costruitagli intorno lungo un trentennio, ha finito per scontare il rischio prevedibile che quel quadro normativo del mercato tv italiano apparisse obsoleto e non più accettabile sotto i fari impietosi della Ue 2020.
Ora quell’ingessatura “sovranista” ormai fuori tempo non mette in discussione soltanto il futuro di Mediaset, ma anche quello del piano Rete Unica, delineato pochi giorni fa da Tim assieme al Governo italiano.Non ha sorpreso nessuno che – a caldo – Mediaset abbia subito provato a gettare in avanti la questione: annunciando il proprio interesse per ogni nuova combinazione in cantiere nel mercato Ict-media, sconvolto dalla globalizzazione digitale assai prima che dal Covid. Cologno Monzese, quindi, non ha potuto che associarsi a una presa d’atto che tuttavia, riguarda tutti i player del mercato nazionale: tutti – in misura più o meno pronunciata – “collusi” nell’oligopolio disegnato originariamente dalla legge Mammì (in era pre-Internet) e sostanzialmente solidificata dalle revisioni successive.
Non è casuale che lo scorporo della rete Tim presso Cdp fosse sul tavolo già 13 anni fa, con il coinvolgimento di Sky, che aveva portato in Italia la tv satellitare. Non è un caso che già allora – ai tempi dello scontro fra Telecom a guida Pirelli e il governo Prodi 2 – ci fosse in incubazione una “media company” italiana che avrebbe potuto avvicinare Telecom, Rcs, Sky e forse la stessa Mediaset. Non se ne fece nulla forse proprio perché l’intero sistema-Paese recalcitrò alla spinta innovativa che proveniva dal mercato e dai diversi settori dell’industria Ict-media. Pesò inequivocabilmente il ruolo ibrido del Cavaliere: capo dell’opposizione parlamentare, duopolista della tv generalista con la Rai e molto altro.
Non sorprende che nel 2020 la Rai sia la stessa di allora, mentre non molto sembra aver cambiato nel paesaggio mediatico nazionale l’avvicinamento di La7 con il Corriere della Sera o la fusione Gedi, ora sotto l’ala Exor. Il sistema riparte dalle sei reti quasi-monopoliste di “Raiset”, dalla carta stampata separata dalle tv e con pochissima proiezione sul digitale; da un’editoria giornalistica frammentata e con pochissime partnership internazionali. È quindi giustificato anche il timore che giganti globali “invadano” senza incontrare resistenze: neppure più quelle dei poteri pubblici nazionali. Lo stesso Patuanelli, tuttavia, quando annuncia “una nuova normativa” non sta prospettando una riforma: sta solo prendendo atto che la regolamentazione attuale si è estinta per consunzione e manifesta incapacità di specchiare e governare il sistema dei media in Italia.
Onestà giornalistica impone di rammentare che gli Stati generali dell’editoria fossero stati indetti dal governo Conte 1 – su spinta del sottosegretario alla Presidenza Vito Crimi (M5s) – e platealmente interrotti dal Conte 2 per voce del successore di Crimi, Andrea Martella (Pd): peraltro prodigo di annunci su “grandi riforme del settore”. Stavolta l’Europa – la stessa che ha accordato all’Italia 200 miliardi di Recovery Fund – è perentoria nel chiedere il cambiamento di un “ordine televisivo” originariamente definito fra il Psi di Bettino Craxi, la Dc di Giulio Andreotti e il Pci post-berlingueriano; e quindi cementato lungo l’intera Seconda Repubblica fra Berlusconi e il centrosinistra di Romano Prodi e della “Ditta” di Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani e Walter Veltroni.
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