Trump tratta il Medio Oriente come un affare: armi a sauditi, attacchi in Yemen e Gaza lasciata alla fame
Inutile. Immaginare gli sviluppi diplomatici e geopolitici dell’attuale plutocrazia statunitense è un azzardo destinato a fallire. Dopo aver bombardato con centinaia di strike le postazioni yemenite dei ribelli Houthi (quelli che bersagliano petroliere, rinfusiere, cargo vari in transito sul Mar Rosso), Trump ha dichiarato che gli stessi guerriglieri islamisti si sono arresi e che quindi le missioni dell’Air Force sono terminate.
Tutto in cambio della promessa dei ribelli di evitare di colpire navi battenti bandiera americana, o destinate a quelle coste, ma riservandosi il “diritto” di continuare a lanciare missili contro le altre imbarcazioni e soprattutto contro il nemico giurato: Israele.
Si tratta, insomma, di un accordo para-commerciale ad esclusiva salvaguardia degli interessi statunitensi e non di quelli del mondo occidentale, né tantomeno di una tregua a protezione dell’alleato Tel Aviv.
Stessa postura assunta da Trump nella recente visita negli Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Qatar, monarchie del Golfo che detengono buona parte del debito pubblico statunitense. È stato quindi un tour da agente di commercio, basato sugli affari (sono stati stipulati accordi su armi, aerei, munizionamenti e IA per centinaia di miliardi di dollari) e ben poco sulla geopolitica, a meno che la “nuova” geopolitica vada intesa alla Trump, una strategia variabile, basata solo su dollari e affari.
A chi supponeva una sorta di mediazione e accordo con il mondo sunnita moderato, è andato di traverso anche l’annuncio del presidente sulla fine delle sanzioni alla Siria e sui “progressi” nei negoziati sul nucleare con l’Iran, sponde queste di credo sciita.
Trump ha trovato anche il tempo di sbruffoneggiare in merito agli abortiti accordi sul cessate il fuoco in Ucraina: “Non succederà nulla – ha vaticinato a bordo dell’Air Force One – finché io e Vladimir Putin non ci incontreremo”.
Per non parlare del discorso che il presidente ha tenuto in Qatar, davanti ai soldati a stelle e strisce schierati nella base aerea Al-Udeid, a sud di Doha, la più grande base statunitense in Medio Oriente: “Vorrei fare della Striscia di Gaza una terra di libertà”, ha scandito, ribadendo quindi il suo disegno della “riviera”, con la deportazione dei palestinesi in Paesi disponibili ad accoglierli.
Nessuna tappa invece dall’alleato storico, Israele. Il nuovo asset mediorientale infatti, secondo la trumpologia, vede piuttosto la straricca Arabia Saudita quale Stato guida (come sostengono anche gli analisti di Haaretz) e la Turchia quale alleato strategico.
Per contro, il premier israeliano Netanyahu aveva detto di voler aspettare la fine del viaggio di Trump in Medio Oriente, ed invece non ha posticipato di un minuto la grande offensiva pianificata dieci giorni fa, nominata “I carri di Gedeone”.
Negli ultimi giorni sono state centinaia le vittime palestinesi dei nuovi attacchi, mentre funzionari israeliani sostengono che “non ci sono stati progressi nei negoziati indiretti per un accordo di ostaggi/cessate il fuoco con Hamas in Qatar”.
Mentre Trump ammette che a Gaza “molte persone stanno morendo di fame e ci sono molte cose brutte in corso lì”. Brutte è dir poco, in realtà: a Gaza, dal 2 marzo non entra più nessun aiuto e le stesse IDF (le forze armate israeliane) avvisano che l’enclave è ormai alla fame.
Nonostante tutto ciò, non ci sono stati progressi nei negoziati indiretti, a Doha, per un accordo di ostaggi e un cessate il fuoco con Hamas. Anzi. “Nonostante l’intensificata pressione militare di Israele – riporta Haaretz -, tra cui un apparente tentativo di assassinio contro l’alta figura di Hamas Mohammed Sinwar, Hamas non ha ammorbidito la sua posizione o accettato il cosiddetto piano Witkoff, l’unica proposta attualmente accettata da Israele”.
Oggi (ieri, ndr), al 591esimo giorno di guerra, tra i bersagli di Israele figura anche lo Yemen dei ribelli guerriglieri Houthi armati dall’Iran, che continuano a spedire missili (praticamente tutti intercettati in volo) verso il nemico sionista: l’altra notte l’aviazione di Tel Aviv ha bersagliato le città portuali yemenite nel tentativo di imporre l’assedio marittimo agli Houthi.
L’IDF ha precisato che i porti di Hodeidah e Al-Salif, nello Yemen, erano stati utilizzati per trasportare armi iraniane. Gli attacchi sono stati effettuati da 15 aerei israeliani: ci vorrà circa un mese per ripristinare la funzionalità dei porti e consentire alle navi di attraccare.
Ma l’obiettivo israeliano sarebbe anche quello di eliminare i capi Houthi, a partire dal leader Abdul Malik al-Houthi, come già fatto con Hamas e Hezbollah. Anche se, proprio dopo le soppressioni di quei comandanti, la situazione non è sostanzialmente mutata: ogni attacco genera altra disperazione, altro odio e altri volontari. Facile trovare tra i superstiti un successore valido per guidare le milizie.