Quello che colpisce, nell’ennesimo caso Mediobanca-Generali, è l’allungarsi ulteriore dell’ombra francese che già da mezzo secolo condiziona in misura continua e importante quello che resta un cardine portante del sistema finanziario italiano.
È almeno dal 1973 che Mediobanca – fondata dalle banche Iri nel 1946 e da esse controllata fino alla morte di Enrico Cuccia nel 2000 – è sempre più una joint-venture fiduciaria fra il fondatore italiano e la franco-americana Banque Lazard, impersonata per quasi quattro decenni dal finanziere francese Antoine Bernheim. La “liaison” – allora costruita attorno sulla misteriosa finanziaria lussemburghese Euralux – nacque proprio per dare un assetto stabile alle Generali: allora la più importante istituzione finanziaria italiana e una delle principali compagnie assicurative d’Europa (a lungo fra le “Big 3” con la tedesca Allianz e la francese Axa).
Quasi cinquant’anni dopo, il cosiddetto “caso Del Vecchio” matura su questioni e in condizioni pochissimo mutate da allora. Che fare di Generali? Il Leone rimane un player finanziario di grande dimensione e profilo, ma inversamente proporzionali al peso effettivo sul mercato e negli equilibri del sistema-Paese. La compagnia resta al guinzaglio di Mediobanca, che tuttavia è diventata nel frattempo solo la holding del pacchetto di maggioranza Generali e ha perduto in pochi anni quasi del tutto il suo ruolo di crocevia e regista del capitalismo “misto” nazionale. Può un grande gruppo come quella di Trieste sopportare a lungo la paralisi e l’emarginazione imposte dal rapido declino di Mediobanca?
Non la pensa evidentemente così un imprenditore come Leonardo Del Vecchio: che con l’immobilismo di Mediobanca – ma anche con la logorante contrapposizione fra UniCredit e Intesa Sanpaolo – si è già scontrato quando ha provato a costruire un polo biomedico d’eccellenza a Milano attorno allo Ieo. Del Vecchio – che vuol ora portarsi al 20% in Mediobanca ed è già titolare diretto del 5% in Generali – è oggi un uomo d’affari più francese che italiano: è Presidente e grande azionista di Essilor (con cui è stata fusa Luxottica) e patron di un gigante nell’immobiliare transalpino come Covivio.
La Francia, ancora e sempre la Francia. È francese il Ceo di Generali Philippe Donnet. È francese Vincent Bolloré che dopo la morte di Cuccia auto-scalò Mediobanca per conto dell’erede Vincenzo Maranghi: fu fermato da una contro-scalata di banche e Fondazioni italiane, ma dopo quasi vent’anni quello schema garantisce ancora lo “status quo ante” fra Milano e Trieste. È francese il Ceo di UniCredit, Jean Pierre Mustier, che ha da poco venduto sul mercato l’ultimo pacchetto storico rilevante di Mediobanca (probabilmente agevolando Del Vecchio), ma ora è in campo nell’Ops Ubi contro la rivale Intesa Sanpaolo (assistita da Mediobanca in un piano che coinvolge anche Unipol).
È di famiglia (anche) francese Yaki Elkann: che sta fondendo Fca con Psa, (controllata anche dallo Stato francese) e che da neo-editore di Gedi ha riacceso sul piano mediatico la – presunta – aggressione di Del Vecchio su Mediobanca: poche ore dopo che Fca ha ottenuto da Intesa Sanpaolo un maxi-prestito garantito dallo Stato. È diventato per qualche verso francese anche il romanissimo Francesco Gaetano Caltagirone, altro grande azionista di Generali: da quando ha ceduto a Suez la sua partecipazione in Acea, la multiutility capitolina. È filo-francese il Governo Conte, “in squadra” con il Presidente Macron nella battaglia del Recovery Fund Ue osteggiato dai Paesi “frugali” del Nord Europa.
Non è facile predire oggi quale esito avrà una battaglia che ancora poco tempo fa sarebbe parsa centrale nella vita del Paese e ora appare quasi estranea nell’Italia del post-Covid. In realtà rimane centrale: è anzi un sintomo importante di come nel sistema-Paese “nulla sarà più come prima”. Anche se – come era già facile prevedere prima – la soluzione finale per Generali passerà molto probabilmente dalla Francia.