Christopher Newman, ingegnere del suono, vincitore di 3 oscar (nel 1973 per l’Esorcista, nel 1984 per Amadeus, e nel 1997 per il Paziente inglese), candidato a otto nomination come Sound director, si è confrontato questa ieri sera sera con il regista Alessandro D’Alatri sui diversi ruoli detenuti dai protagonisti del mondo cinematografico.
D’Alatri, che nel 1998 ha diretto Kim Rossi Stuart ne I giardini dell’Eden, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, nel 2000 ha vinto il Leone d’Argento al festival della pubblicità di Cannes per lo spot della posta prioritaria, nel 2002 ha diretto il debuttante Fabio Volo in Casomai, che ottiene un ottimo successo di critica e pubblico e che permette all’altra interprete del film, Stefania Rocca, di essere candidata al Nastro d’Argento come miglior attrice.
Nel 2005 torna a lavorare con Fabio Volo ne La febbre, in cui racconta la vita di provincia. “La capacità di osservare il reale e di incidervi” è stato il messaggio forte espresso da Newman “è ciò che permette di essere creativi, apportando innovazioni in qualsiasi mestiere”. Newman ha esordito ricordando che “nessuno conosce la mia arte. La mia abilità è una cosa invisibile”. Il moderatore dell’incontro, Massimo Bernardini, gli ha chiesto perché avesse deciso di far vedere al pubblico del Meeting una scena integrale del film “Amadeus.
“Ho scelto questo film perché le modalità di registrazione del suono che sono presenti qui non esistono più, era una scena fatta con un solo microfono, oggi invece siamo ossessionati dalla tecnologia, c’è una forte invasività del suono”. D’Alatri ha spiegato che la tradizione italiana è molto legata al doppiaggio, che ha le sue radici nel neorealismo. Questa modalità di ripresa del suono ha deformato l’atteggiamento nei confronti del sonoro. Con Gassman e altri attori di quel periodo, in film come Tutti a casa, e La grande guerra riappare la spontaneità, riavvicinandosi così alla presa diretta del suono.
“Molti artisti nuovi – sostiene D’Alatri – usano la tecnica audio-visiva e non pensano a pianificarlo, non capendo l’importanza che ha il sonoro degli attori, a cui dovrebbe seguire la costruzione dell’ambiente circostante”. Newman interrompe D’Alatri dicendo che la situazione economica del cinema influenza anche queste scelte; i suoni allora vengono ripetuti in serie e i registi spesso non si curano del suono.
“Gli artisti poi molto spesso in America – osserva – non sanno usare la voce perché non ci sono grandi teatri. In un film come il Silenzio degli innocenti sono stati usati radiomicrofoni e il suono è stato prodotto in una location nella location. In questo film il regista ha continuato a cambiare idea, come accade spesso per i migliori registi; il direttore del suono deve molto spesso saper proteggere e tutelare il regista”.
Le nuove generazioni invece – sostiene Newman – hanno il problema di voler sempre trovare tutto confezionato, mentre per imparare bisogna continuare a ripetere, così perfezionandosi. Newman si è soffermato raccontando del suo impegno alla School of Visiual Art di New York.
D’Alatri ha parlato del suo lavoro nel film “I giardini dell’Eden”: “Dovetti fare i conti con la figura di Gesù. Avevo 40 anni e un figlio. Mi chiedevo in continuazione: ‘Come posso spiegare l’intangibile che sta intorno a noi?’, così pian piano riscoprii le mie radici”.
“In Caso mai invece – ha detto poi D’Alatri – sono partito da un’esperienza concreta. Un mio amico si era sposato, mi aveva anche costretto a mettermi in tight per l’occasione. Dopo un mese si è separato. Era da un po’ di tempo che pensavo ‘perché la gente si separa?’ Mi sono risposto che oggi sono stati persi i riti di passaggio, ma il matrimonio rimane ancora un rito molto forte non ancora perduto. Quando due si sposano non si sposa solo quell’uomo e quella donna ma tutti i due eserciti di persone che sono alle loro spalle. I miei film mettono sempre in evidenza i difetti delle cose per dare a questi una maggiore importanza”.
La cacciata dalla chiesa presente in quel film, spiega il regista, è la restituzione della dignità a quel rito. “Ho scelto Fabio Volo – riprende – perché espone la sua fragilità, non mi piace rappresentare la finzione delle cose, ma l’essenzialità. Sono molto affascinato dai comportamenti – dice infine D’Alatri – percepisco alcuni aspetti della società, le loro contraddizioni”. Osservare il reale, appunto.