Una conversazione con Giorgio Buccellati, archeologo e docente nell’Università della California (Los Angeles, Usa) si rivela sempre una sorpresa. Oggi l’uomo sfiora con le dita uno schermo touch, “ieri” affilava schegge di pietra; due esperienze che sembrano separate da un abisso, ma questo è vero solo in apparenza. In entrambi i casi, la grande posta in gioco è la nostra interiorità. Due mondi se la contendono: quello della Mesopotamia e quello della Bibbia.
Buccellati è a Rimini e parlerà al Meeting su “L’archeologia in Siria: un progetto per la pace” (oggi, martedì 26) e sul tema “Nella storia, la compagnia del destino all’uomo” (mercoledì 27). “L’esperienza umana è segnata dalla continuità – spiega Buccellati al sussidiario -. Anche al tempo degli ominini (perché ancora non si parla di uomini) c’era un confronto con la realtà che serviva a modificare e a educare l’esperienza dei singoli. E questo è qualcosa che ci accomuna ancora a quei primi”.
Lei si riferisce per la parte preistorica al sito di Dmanisi in Georgia, nel Caucaso, e per la parte storica all’antica città di Urkesh in Siria, è così?
Sì. Entrambe sono finestre su un fenomeno più vasto. Il modo in cui l’esperienza si è confrontata con la realtà ha arricchito in tutti i casi il modo di vivere. Dai reperti si vede che c’è un concetto di struttura che governa l’operazione con la quale si arriva a creare il prodotto finale, come strumenti di pietra, lame, asce, martelli. È un concetto che gli animali non hanno, nemmeno le scimmie. Vuol dire che quando i nostri antenati cominciavano a costruire, avevano il senso dell’oggetto finito. Teniamo presente che non è ancora nato il linguaggio. Ma c’è un altro caso ancor più interessante…
Ci dica.
C’è un reperto importantissimo, un teschio senza denti. È di una persona molto vecchia, poteva avere circa 35 anni: la piccolissima comunità in cui viveva la proteggeva, la accudiva. E non in modo occasionale, perché questa cura è andata avanti per due anni o più. Tutto questo implica una finalità precisa, un evidente senso di solidarietà per i deboli. Direi di più: implica la coscienza della fine, il problema della morte.
E il linguaggio?
È il primo momento di una trasformazione epocale. L’inizio del linguaggio e della scrittura sono due facce della stessa medaglia: mettere in chiave extrasomatica delle cose che altrimenti avremmo solo nella mente. Il linguaggio compare circa 50mila anni fa, la scrittura 45mila anni dopo.
Un abisso.
Un abisso molto minore rispetto ai 2 milioni e mezzo di anni che precedono il linguaggio… ma c’è di più. Pensi che 40mila anni fa abbiamo già una prima rivendicazione di ciò che sarà la scrittura, nella forma di rudimentali calendari lunari. Si è rappresentato un concetto al di fuori del corpo, in modo indelebile: in cielo non ci sono mai 29 lune, su quell’osso inciso sì.
È comunque una lontananza che lascia sgomenti, a confronto della rapidità con la quale le cose cambiano oggigiorno. Eppure, non smettiamo di indagare e di pensare a quella lunga trama. Perché?
Io penso che noi oggi stiamo vivendo una trasformazione epocale analoga a quella che è avvenuta tra i 50 e i 5mila anni fa, e precisamente una nuova traduzione del pensiero in una forma extrasomatica. Che allora era passiva, affidata al segno della scrittura (la quale richiede certamente un’attività del soggetto: per comprendere la scrittura infatti ci vuole uno che la legga).
E oggi invece?
Oggi il computer è l’esempio più chiaro di questa trasformazione: con esso mettiamo al di fuori del cervello alcune funzioni attive del cervello medesimo. Non mettiamo fuori di noi solo le idee, ma anche gli strumenti atti a elaborarle.
Quindi?
Perché tutto questo deve interessarci? Perché ci consente di capire una serie di trasformazioni nelle quali siamo immersi e delle quali non abbiamo un sufficiente senso di prospettiva. La globalizzazione, l’anonimità, la funzionalizzazione dell’individuo al sistema, visti in superficie sembrano fenomeni contemporanei, ma nel profondo sono sfide che appaiono fin da quei momenti lontanissimi. Pensi alla nascita della città. La nostra conversazione, al telefono, la presuppone. Io e lei non ci conosciamo, ma siamo parte di una medesima trama di relazioni che interessa entrambi e ci coinvolge. Con la civiltà inizia la schiavitù, è vero, ma inizia anche una rivalutazione degli aspetti tipicamente personali degli esseri umani.
In che senso questa traiettoria prefigura anche un destino umano?
Lo si vede bene se mettiamo a confronto la Mesopotamia e Israele. Nel mondo del politeismo mesopotamico il destino è concepito come coerenza: la realtà è coerente e quando un fattore non vi rientra (pensiamo a certe malattie, ma gli esempi potrebbero essere innumerevoli) noi pensiamo che prima o poi lo controlleremo, è solo questione di tempo. Ma questa è anche la tesi del mondo secolare e del mondo ateo. Da notare che è un’ipotesi indimostrabile: possiamo solo dire che finora le cose hanno funzionato così.
Dunque l’idea di progresso tipica del mondo secolarizzato è prettamente mesopotamica.
Sì. Pensi all’attualità dell’astrologia mesopotamica: essa non fa nient’altro che trovare correlazioni in fenomeni che si ripetono in maniera coerente. Non è facile, sia chiaro, perché presuppone la fedeltà ad un sistema di osservazione che va da generazione a generazione… uno sforzo enorme. Ma non c’è il mistero, c’è solo il segreto.
Nel mondo biblico invece?
Qui tutto è costruito sul concetto della fedeltà di Dio. Nell’ideale monoteista c’è una imprevedibilità di Dio esattamente come c’è tra gli esseri umani. L’amore non è forse imprevedibile? Ma a ben vedere funzionano così tutti i rapporti umani: in essi l’imprevedibilità avviene nella fedeltà di fondo al proprio sé, all’io. Nell’apparente incoerenza con la quale si mostra a noi, Dio è però coerente con se stesso.
Faccia un esempio, professore.
Basta pensare al racconto del peccato originale: Dio minaccia l’uomo di morte, ma non c’è nessuna morte, perché Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito e tuttavia nessuno muore. Ma allora, ciò che Dio intendeva per morte era un’altra cosa, era la rottura di un legame. Con Abramo avviene la stessa cosa: c’è una promessa di Dio che Dio stesso vuole vanificare. L’imprevedibilità è la “coerenza” del mistero… E il nostro mondo non pulsa forse di queste stesse grandi cose?
(Federico Ferraù)