Lavoro, migranti, cittadinanza: grandi temi del dibattito pubblico che suscitano una riflessione sull’accoglienza degli stranieri e i loro Paesi di origine
Caro direttore,
sono stato ai primi due giorni de “La Milanesiana”, organizzata da Elisabetta Sgarbi. In particolare, ho potuto partecipare a due incontri sul tema del diritto. Nel primo, Massimo Cacciari e Luigi Garofalo, partendo dall’Antigone di Sofocle, hanno parlato del difficile rapporto tra il diritto dello Stato e quello della coscienza.
Poi, con un dibattito diretto da Piergaetano Marchetti a cui ha partecipato anche Elsa Fornero, ex ministro del governo Monti, si sono trattati diversi aspetti del diritto del lavoro. Questo è avvenuto all’indomani dei risultati del referendum dove la questione del lavoro faceva la parte del leone.
Per la verità i quesiti del referendum riguardavano solo alcuni aspetti del lavoro, per di più posti in un modo lontano dalle vere questioni che interessano imprese e lavoratori. In un mercato in cui c’è più offerta di lavoro che disponibilità a essere assunti, le vere questioni che il Parlamento deve trattare riguardano la preparazione adeguata di chi deve incominciare un lavoro, oltre alla disponibilità ad affrontare seriamente la questione della mobilità. Ad esempio, a Milano ci sarebbero diverse proposte di lavoro, ma venire ad abitare qui, visti i prezzi proibitivi delle case, diventa per molti impossibile.
C’è poi la terribile spada di Damocle della grave crisi demografica, che prefigura tempi assai duri per i futuri pensionati.
In questa situazione ci è stato detto che è da considerarsi provvidenziale la venuta di immigrati che vengono a riempire i vuoti. È una tesi che mi lascia perplesso. Ho ascoltato tutto con attenzione, ma alla fine non ho potuto fare a meno di ricordare che questo apparente favore verso gli immigrati in verità non teneva conto che, venendo da noi, essi privano i loro Paesi della loro forza, spesso di giovani che sarebbero utili al cambiamento della situazione nella loro patria. Quando arrivano qui e acquisiscono adeguate competenze difficilmente tornano a casa a condividerle con i loro connazionali. In più noi, visto che ci servono, secondo alcuni dovremmo fare in modo di accelerare la loro “nazionalizzazione”.
Pensate poi a quelli che fuggono da regimi dittatoriali e sarebbero potenziali promotori di un cambiamento democratico di cui avrebbe bisogno il loro Paese.
In questo senso, tornando all’incontro a cui ho partecipato, si apre una questione di coscienza: fare gli interessi dello Stato, il nostro, o conservare una viva attenzione anche a quelli che non possono venire qui a “godersi i frutti della nostra democrazia?”. Vale la pena di non lasciare cadere la domanda.
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