I centri per migranti in Albania diventano dei CPR, Centri di permanenza per il rimpatrio. Ideati per ospitare gli stranieri in attesa di definire la loro posizione come richiedenti asilo o come candidati a tornare a casa con procedure veloci, finora sono rimasti sostanzialmente inutilizzati, anche in virtù di sentenze avverse della magistratura italiana.
Di conseguenza il governo ha pensato di cambiare le modalità di utilizzo delle strutture, in attesa di sapere, dai giudici della Corte di giustizia europea, come stabilire quali sono i Paesi sicuri, quelli nei quali gli stranieri possono eventualmente essere rimpatriati senza che ci siano controindicazioni.
Da modello innovativo, anche se — spiega Mauro Indelicato, giornalista di Inside Over e Affari Italiani — alla fine mai veramente preso in considerazione in sede europea, si passa a un impiego simile a quello di altre strutture del genere esistenti in Italia. Solo che si opera in Albania, dove comunque, solo per questa dislocazione, le spese per il mantenimento dei centri sono superiori a quelle delle analoghe strutture italiane.
Il governo cambia destinazione d’uso ai centri per i migranti costruiti in Albania, che diventano dei CPR. Riuscirà finalmente a utilizzare queste strutture?
L’esecutivo sta provando a integrarli nel più generale sistema di accoglienza. Per questo è stato deciso che uno dei centri sarà usato come un qualsiasi CPR italiano. In poche parole, è come se avessimo spostato in Albania uno dei centri di accoglienza in Italia.
La novità più grande consiste nel fatto che non verranno trasferiti lì solo coloro che sono stati soccorsi in mare, ma anche chi era già arrivato in Italia: sarà come essere in un CPR a Lampedusa o in altri CPR italiani, la differenza è che questo si trova in Albania, un hub di soccorso e di accoglienza gestito comunque da personale italiano.
Ora la sopravvivenza di questi centri non dipende più così strettamente dal prossimo pronunciamento della Corte di giustizia europea sui Paesi sicuri?
Fino a ieri questi centri erano destinati a persone soccorse in acque internazionali, che venivano portate in Albania per valutare la loro posizione.
Qui le procedure di espulsione dovevano essere molto più veloci, con l’incongruenza che i decreti di espulsione venivano definiti in base alla lista dei Paesi sicuri, poi bocciata dalla magistratura e ora in attesa di una sentenza dei giudici europei. La loro funzione primaria, fare da deterrente per i migranti che partono dalla Libia e accelerare le procedure di espulsione per chi proviene dai Paesi sicuri, viene un po’ a mancare.
Ora funzioneranno come un CPR italiano, indipendentemente dalla sentenza europea. Una volta che la loro funzione primaria non può essere svolta, allora si adibiscono a strutture normali: quantomeno si giustifica la spesa, non indifferente, fatta per costruirli.
Una spesa che sarà sempre più alta degli altri CPR funzionanti in Italia?
Certo. Si tratta, per esempio, di portare in Albania un personale italiano per presidiare i centri e questo, ovviamente, ha un costo, che si aggiunge a quello per la costruzione: non ha le stesse spese di un normale CPR.
Se al posto di queste strutture, che come centri migranti non potevano funzionare, avessero realizzato degli alberghi o parchi per la popolazione locale, il discorso politicamente sarebbe molto imbarazzante. Destinandoli a diventare un CPR si salva un po’ la faccia: quantomeno c’è una struttura che serve per alleggerire il carico di migranti in Italia.
I CPR chi ospitano di solito?
Servono per coloro che sbarcano nel nostro Paese, nella fase preliminare che precede lo smistamento in altre strutture di accoglienza, dove si procede per quanto possibile a un riconoscimento. Sono strutture di primaria accoglienza, in attesa dell’esito delle domande di asilo.
Quando ci sono persone che entrano irregolarmente in un Paese straniero, servono dei centri in cui possano essere identificate per consentire delle verifiche. In alcune situazioni si possono verificare dei contesti limite, un sovraffollamento, però ovunque esista un fenomeno migratorio esistono strutture del genere.
La sentenza della Corte di giustizia europea sui Paesi sicuri, intanto, si sa più o meno quando sarà? Come sarebbero orientati i giudici?
Dovrebbe arrivare entro aprile, così fanno trapelare da Lussemburgo. Sicuramente sarà prima dell’estate, perché con il miglioramento delle condizioni del tempo nel Canale di Sicilia potrebbero aumentare i flussi. È una sentenza importante: fisserà dei paletti insormontabili per indicare quali Paesi stranieri devono essere considerati sicuri e quali no.
Credo, comunque, che non spegnerà le polemiche, in Italia come in Europa. Se l’interpretazione della Corte sarà molto stringente, ci sarà una parte politica che dirà che gli unici Paesi sicuri sono quelli europei, e che non si possono più fare rimpatri.
Se sarà a maglie larghe, la parte politica avversa dirà che la sentenza legittima i rimpatri di massa. Comunque vada, i giudici europei saranno al centro di polemiche e la questione non verrà messa nel dimenticatoio.
Il pronunciamento in un senso o nell’altro cambierà le politiche migratorie degli Stati membri della UE?
Penso che, alla fine, ogni governo cercherà di attivare le sue politiche comunque. Una volta fatta la legge, si troverà il modo di adeguarsi.
Il modello Italia-Albania, che era stato preso anche come punto di riferimento da qualche Paese in particolare e dall’Europa in generale, non verrà più preso in considerazione come soluzione innovativa?
Non è mai stato un modello. La Gran Bretagna, che non fa parte della UE, lo ha elogiato, ma con Sunak aveva ideato un sistema simile.
Quando si è ragionato sui migranti a livello europeo è stato considerato con un certo interesse, non è mai stato visto come un modello da applicare a tutti i costi. È stata una soluzione che il governo Meloni ha legittimamente provato, ma che alla prova dei fatti non ha tenuto.
(Paolo Rossetti)
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