Scontri a Milano: la protesta della sinistra contro il Remigration Summit degenera in violenza, oscurando il dibattito sull’immigrazione
A Milano, ieri, la protesta contro il Remigration Summit – l’incontro dell’ultradestra europea organizzato a Gallarate (Varese) – è degenerata in scontri tra manifestanti e forze dell’ordine con il corteo antifascista, partito da piazza Cairoli con oltre 1.500 partecipanti tra cui attivisti di centri sociali, sindacati e partiti di sinistra, che ha deviato dal percorso autorizzato dopo l’accensione di fumogeni e il lancio di oggetti contro la polizia e – all’altezza di via Boccaccio – un gruppo di manifestanti con caschi e bastoni ha sfidato gli agenti, costringendoli a utilizzare idranti e manganelli per disperdere la folla.
Intanto, a Gallarate, il teatro comunale ospitava il summit sulla “remigrazione”, teoria sostenuta da movimenti sovranisti che propongono il rimpatrio di migranti irregolari, e tra i relatori, esponenti di estrema destra italiani e internazionali, tra cui Davide Quadri (Lega Giovani), che ha definito la remigrazione un tema identitario non negoziabile e il generale Roberto Vannacci che, in un video-messaggio, ha rilanciato l’idea spiegando che si tratterebbe di una battaglia di civiltà, non di uno slogan.
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha difeso il diritto al confronto pubblico in quanto, secondo lui, in democrazia non si dovrebbe aver paura di idee forti, anche quando risultano controverse, così la giornata si è divisa lungo due direttrici parallele: da un lato, la piazza milanese, con striscioni come “Make Europe antifa again” e la presenza della segretaria del Pd Elly Schlein, che ha accusato il governo di dare sponda a ideologie xenofobe, dall’altro, il Remigration Summit.
A Gallarate, il sindaco leghista Andrea Cassani ha garantito la sicurezza nonostante le proteste – tra cui un flash mob di 200 persone in piazza Libertà – mentre a Milano la tensione è esplosa con feriti tra le forze dell’ordine e danni a diverse vetrine nel centro città, ma le fratture sono emerse anche sul piano delle dichiarazioni politiche: Schlein ha insistito sul pericolo di legittimare teorie razziste, mentre Piantedosi ha mantenuto un equilibrio tra condanna della violenza e difesa della libertà di espressione.
Scontri come strategia: quando la violenza annienta il dibattito sull’immigrazione
Secondo alcuni esponenti della destra, mentre la sinistra radicale incendia le strade, il Paese non può permettersi di ignorare le richieste di chi invoca maggiore sicurezza: gli scontri a Milano hanno oscurato le critiche al Remigration Summit, trasformando una protesta politica in uno scontro fisico, che ha reso marginale il contenuto stesso del dibattito sull’immigrazione.
La sinistra violenta, nascosta dietro simboli antifascisti, avrebbe così impedito – di fatto – un confronto aperto sulle proposte avanzate a Gallarate; tra i presenti al summit, una donna italiana ha raccontato di non sentirsi più sicura nemmeno uscendo di casa, lamentando che lo Stato non protegge i cittadini e che, a suo avviso, gli irregolari dovrebbero essere rimpatriati. Dichiarazioni forti – e certo divisive – ma che pongono domande su cui non si può più sorvolare riguardo la gestione dei flussi migratori, oggi coperti dalla narrazione dominante degli “scontri tra estremismi”.
Elly Schlein non ha condannato in modo esplicito i disordini, una scelta che – secondo molti osservatori – rispecchia l’ambiguità strategica di una sinistra divisa tra l’esigenza di garantismo e il controllo di attivisti sempre più aggressivi e, nel frattempo, la retorica della “piazza che si fa giustizia” è risuonata nei cori dei manifestanti milanesi – “Siamo tutti antifascisti” – e nelle azioni di chi, deviando i percorsi autorizzati, ha trasformato il dissenso politico in guerriglia urbana.
Ne emerge l’immagina di una sinistra violenta che, rifugiandosi dietro lo slogan dell’antifascismo, soffoca il confronto serio sull’immigrazione e mentre i caschi e i fumogeni dei manifestanti milanesi oscurano le criticità reali, le istanze di sicurezza dei cittadini – per quanto radicali – finiscono per legittimare le posizioni più estreme. L’ipocrisia è palese: chi si professa paladino dei diritti umani sceglie la guerriglia urbana invece del dialogo, e quando la violenza sostituisce le argomentazioni, il prezzo più alto lo pagano migliaia gli italiani, costretti a subire un dibattito pubblico ridotto a scontro tra opposte intolleranze, dove le soluzioni svaniscono nel fumo dei lacrimogeni.