Che la morte del Cardinale Carlo Maria Martini avrebbe innescato nella cultura “laica” una (triste) commedia degli equivoci era una facile previsione. E la facile previsione si è puntualmente avverata. Che l’”albero genealogico” dell’ecclesiologia del Cardinale fosse molto diverso da quello di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI, nonché di altre figure di fondatori del movimento di rievangelizzazione dell’epoca post-moderna (tra cui Luigi Giussani), è un fatto di lampante evidenza. Né Newman, né Romano Guardini, né De Lubac, né Von Balthasar erano tappe importanti del suo itinerario di pensiero; e peraltro la sua attenzione non cessò mai di essere volta soprattutto all’Antico Testamento.
I suoi riferimenti erano altri, e conseguentemente il suo atteggiamento verso la cultura dominante del mondo in cui viviamo era meno alternativo. Pretendere però di farne un autorevole cappellano di tale cultura – come la Repubblica, il Corriere della Sera e tutti i loro satelliti cartacei e radiotelevisivi stanno facendo in questi giorni – è cosa radicalmente falsa e perciò profondamente ingiusta. Al di là di legittime differenze il Cardinale Martini era un cristiano, un uomo di Chiesa, la cui fede non era incasellabile nei luoghi comuni riduttivi che la visione del mondo neo-voltairiana riserva all’esperienza religiosa. Chi non ci crede vada a vedersi i suoi dialoghi con Eugenio Scalfari. Qualcuno potrebbe domandarsi se fosse il caso di dialogare così a lungo con un personaggio di mentalità tanto settaria, ma è pur vero che il cristiano è chiamato a parlare con tutti.
Vale comunque la pena di cercare di cogliere la griglia concettuale sottostante il diluvio di commenti e commemorazioni sulla sua figura che dilaga in questi giorni. Il primo e più estemporaneo strato di questa griglia attiene alla questione dell’eutanasia. Si è appreso che il Cardinale aveva chiesto che le cure di cui era oggetto non varcassero il limite oltre il quale si può parlare di accanimento terapeutico. Che cosa c’entra questo con l’eutanasia? Nulla. Molto spesso però il cavallo di battaglia dei sostenitori in Italia della legalizzazione dell’eutanasia è appunto il voluto equivoco tra eutanasia e accanimento terapeutico. La volontà espressa dal Cardinale è stata subito vista da costoro come un’occasione da non perdere.
Il Corriere si è precipitato a dare fuoco alle polveri titolando “Le terapie rifiutate diventano un caso”. Secondo Repubblica la vedova Welby avrebbe detto del Cardinale che “non ha voluto l’accanimento terapeutico, coerente fino all’ultimo come mio marito”. Vito Mancuso, il cembalo risonante già prete e già discepolo del Cardinale, parla del suo rifiuto delle cure come “gesto di libertà”; e con la consueta bonomia mefistofelica rincara la dose il professor Umberto Veronesi.
Il secondo e più profondo strato della griglia riguarda la Chiesa in quanto tale, la quale secondo la cultura neo-illuminista che domina il nostro tempo non ha il diritto di avere una propria identità bensì soltanto il dovere di conformarsi al ruolo che di volta in volta il potere le assegna. Don Luigi Ciotti, che di tale cultura fa parte a pieno titolo, loda il Cardinale Martini per aver “stimolato la sua Chiesa a lottare per la libertà di tutti”. Onore a lui, osserviamo per parte nostra, ma è semplicemente ciò che qualsiasi cristiano e tanto più qualsiasi vescovo è chiamato a fare: Ubi Ecclesia ibi libertas, come alcuni secoli or sono aveva affermato un suo illustre predecessore.
E il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, non esitando a metter mano nell’agenda del Papa, dichiara che “sarebbe un gesto simbolico per l’unità della Chiesa se Benedetto XVI venisse al suo funerale”. In altre parole il Cardinale Martini sarebbe stato una specie di antipapa con cui il Pontefice farebbe bene a riconciliarsi quantomeno post mortem. In vita il Cardinale avrebbe ben saputo come reagire a questa lode avvelenata. Ora però grazie a Dio egli è in una dimensione in cui cose del genere non hanno più peso alcuno.