Che la Lombardia, in certi campi, sia un’eccellenza nazionale ed europea è noto pressoché a chiunque; tra quelli in cui spicca, c’è sicuramente il welfare. Naturale, quindi, che in molti temano che quanto fatto sinora possa essere messo in discussione dal cambio di gestione. Johnny Dotti, presidente di Welfare Italia Servizi, è candidato in Regione con Ambrosoli, e ne sta curando la parte del programma relativa al sociale. Gli abbiamo chiesto cosa accadrà se la coalizione di centrosinistra dovesse vincere le elezioni.
Quali sono i fattori fondamentali del sistema di welfare che sta mettendo a punto?
Occorre riprendere quell’ipotesi di sussidiarietà abbandonata dalla Regione circa dieci anni fa, quando tale principio iniziò ad essere inteso secondo un’interpretazione individualista. Negli ultimi anni, infatti, non è stata strutturata a sufficienza l’auto-organizzazione dei soggetti sociali, necessari per un welfare che, oggi, ha bisogno quanto mai di legami; inoltre, va ribadito il principio secondo cui la sussidiarietà non si realizzata con i soldi pubblici. Occorre individuare, invece, modalità di investimenti e di risparmio che non dipendano da essi; dobbiamo, infine, smetterla di badare unicamente all’accreditamento dei servizi, ma concentrarci, piuttosto, su quello dei soggetti sociali, lasciando loro il massimo della libertà. In sostanza, rispetto al passato, deve introdursi un nuovo concetto: non si vive di soli voucher. Ovvero, non si possono più lasciare le persone sole, con un po’ di soldi in tasca e un’offerta diversificata. Si dovrà, invece, aiutare la domanda ad aggregarsi.
Chi è che dovrebbe aiutare?
I soggetti sociali quali le associazioni, le cooperativi sociali, le fondazioni, e le nuove forme di impresa sociale, già esistenti o da ideare nel tempo. Non dimentichiamoci del sistema delle vecchie mutue, cestinato negli anni ’70, ma da riscoprire. Queste entità non sono semplicemente erogatori di un dato servizio, ma rappresentano luoghi di legame. In questo consiste il vero cambiamento. La libertà non è semplicemente una scelta tra più opzioni, ma la possibilità di essere aiutati in questa scelta all’interno di un rapporto. Per questo, affermo che l’importante è lavorare sull’aggregazione della domanda e non sulla moltiplicazione dell’offerta.
Ci faccia capire: perché il cittadino che deve decidere dove farsi operare d’appendicite o in quale struttura ricoverare i genitori anziani non può farlo da solo?
Perché nella realtà concreta il cittadino non sa perché sceglie una cosa piuttosto che un’altra. Non solo perché non dispone delle conoscenze scientifiche adeguate, ma perché non è aiutato a conoscere a fondo l’entità del suo stesso bisogno. Vede, molti dei bisogni sociali non si esauriscono nella prestazione, ma necessitano di amicizia, compagnia, legami. La cronicità, per esempio, non si limita ad essere un problema di punture o flebo protratto negli anni. Il futuro del welfare, quindi, non consiste nell’aggiungere soldi, ma nel rafforzare legami e significati.
Lo stesso discorso vale per tutti gli altri settori in cui, attualmente, la Regione eroga dei voucher?
In linea generale, sì. Il voucher è una strada che non va completamente abbandonata, ma va resa più adulta. Mi spiego: se una persona ha un genitore malato d’Alzheimer, una figlia anoressica o un figlio tossicodipendente, non ha bisogno di una semplice prestazione, ma di luoghi e persone.
Cosa salva della gestione Formigoni?
Ha “sdoganato” il principio di libertà. Ma, lo ripeto, negli ultimi anni lo ha individualizzato.
Cosa ne sarà della galassia di imprese che sono legate alla Cdo?
Se dipendesse da me, non faremo piazza pulita, né occuperemo il potere, ma libereremo energie. Le cosiddette opere sociali, quindi, vanno sottratte anzitutto alla dipendenza dei soldi pubblici. Occorre immaginare forme di de-statalizzazione e socializzazione. Un passaggio complesso che richiede anni.
Come si finanzia tutto ciò?
Immaginando nuove forme di investimenti e di ciclo economico. Non possiamo più pensare a risorse infinite che soddisfino bisogni infiniti ma riconsegnare questi ultimi al buon senso della comunità: mettendo, quindi, le comunità nelle condizioni di trovare un meccanismo di produzione del valore che stia in piedi.
Come?
Si può immaginare un servizio civile obbligatorio per i giovani dai 18 ai 29 anni, gestito con pochissimi soldi pubblici, ma moltissimi provenienti da fondi aziendali, dalle imprese non profit o dalle fondazioni. Inoltre, si possono rimettere in circolo enormi risparmi attualmente occultate. Penso ai risparmi di migliaia di famiglie che, attualmente, se ne vanno in badanti mentre potrebbero essere riqualificati in maniera più intelligente dal punto di vista degli investimenti. Le fondazioni che dovessero nascere nel frattempo potrebbero immaginare qualcosa che vada al di là dell’erogazione, e inizi a puntare sugli investimenti.
(Paolo Nessi)