Tanta gente, come prevedibile per un personaggio che aveva saputo come pochi altri entrare nel cuore della gente. Eppure la cosa che più colpiva ieri al funerale di Enzo Jannacci era la bellezza di Milano. Un cielo finalmente liberato dal grigio e dall’assedio di un inverno infinito; una chiesa, Sant’Ambrogio, che ogni volta che vi si entra è come mettere piede nell’anticamera del paradiso: così larga, luminosa, giusta nelle sue proporzioni, così perfetta nella somma delle sue imperfezioni. Milano ieri è sembrata una città capace di un’imprevista tenerezza: se ne sono resi conto tutti quando il coro ha intonato davanti alla bara di Jannacci il “Qui presso a te”. Era evidente che quel canto, sotto quelle volte, in quella luce di un aprile appena sbocciato, esprimeva la cosa che Jannacci aveva più cercato nella sua vita, in particolare negli suoi ultimi anni inquieti: la carezza di Dio.
Sull’altare, a celebrare, c’era la persona giusta, don Roberto Davanzo, colui che dirigendo la Caritas Ambrosiana è responsabile anche di Scarp de Tenis, il giornale di strada che dal 1994 aiuta tanti emarginati a sbarcare il lunario. A pensarci, è una dinamica molto milanese quella che ha portato a generare un’opera di fattiva solidarietà, facendo leva sul titolo di una canzone meravigliosa dedicata a un senza dimora. «Se la canzone di Jannacci si chiudeva con il ritrovamento del protagonista sotto un mucchio di cartoni ormai esanime e con un cinico “lasa sta, che l’é roba de barbun”», ha detto nella predica Davanzo, «possiamo dire che proprio quella canzone è invece diventata la cifra di un prendersi a cuore le storie e le vite di tanti “barboni” alla ricerca più o meno consapevole di un’esistenza più dignitosa, di un amore, di una speranza». La carità, ha concluso Davanzo, ha bisogno di poeti. E Jannacci, senza programmarlo, è stato un poeta della carità («è stato il nostro “padre battezzatore”», hanno scritto sul sito di Scarp de Tenis per ricordare Jannacci).
E poi, come sempre in questi giorni di lutto e di commozione, al fianco della bara di Enzo c’era il figlio. Paolo, un tipo a cui tutti abbiamo voluto bene: scavato dal dolore, ma sempre cortese con tutti. Difficile vedere un figlio così orgogliosamente fiero di un padre pur non semplice (nel bellissimo libro Aspettando al semaforo. L’ unica biografia di Enzo che racconti qualcosa di vero, lo definisce «un uomo dalla semplicità disarmante ma con un’intelligenza terribilmente complicata»).
In quel libro, Paolo ha inserito alcuni dialoghi surreali, a tratti esilaranti, con il padre. Uno di questi si intitola “Milano”. Jannacci spiega che la cosa che più lo strega della sua città sono i tram. E la motivazione è una chiave per capire quel che ieri Milano ha vissuto salutando il suo poeta: «Nulla è impossibile in questo mondo. Nulla è impossibile. Soprattutto il tram, il tram è… è la magnificenza del creato, il tram è… il massimo che si possa… cui si possa aspirare quando si è giù dal tram (…) E poi non è che il tram arriva sempre, non è come il treno… il tram arriva quando vuole lui… arriva in momenti particolarmente precisi. Precisi quando vuole lui naturalmente… ha una sua precisione… Il tram è una cosa importante, capisci? Una cosa che appena sale sul predellino del tram, che doverosamente in legno, pensi, in legno, sale e si sente in un altro mondo».
Ieri a Sant’Ambrogio si respirava questa certezza: che il tram fosse passato e che Enzo l’avesse agguantato, salendo felice sul suo magnifico e traballante predellino…